Maria Luisa Spaziani sarà ricordata come l’amante di Montale; la definizione funziona come se fosse una bella confezione in cui incartarla e ridurla, questa “poeta” che è stata un osso duro del Novecento italiano, la pietra di scandalo del femminismo poetico e l’inciampo degli autori successivi al suo Eugenio, nonostante lui si lamentasse che gli aveva rovinato la vita quando scelse di trasferirsi a Roma per vivere e sposarsi con Elémire Zolla (dopo la morte della sua Cristina Campo, che peraltro la detestava cordiamente giudicandola priva di vero talento).
La Spaziani in effetti non è mai stata una donna facile, anche se accusata di facili costumi: non le mandava a dire, si ricordi ad esempio la sua forte avversione per la neoavanguardia.
«Per me il Gruppo 63 è come se non fosse mai esistito”, aveva detto ad Antonio Gnoli in una intervista a Repubblica. “Ricordo scontri cruenti con Sanguineti: un pagliaccio, intellettualmente intendo, coltissimo ma senza consistenza poetica. Ho detestato il suo modo di interpretare la cultura. Dannazione! La sua illeggibilità ha portato via lettori alla poesia. Non ce ne è uno del Gruppo che salverei, forse solo l’Antonio Porta degli inizi. Quell’esperienza, così sopravvalutata, è stata una bolla di sapone. Con la scusa del neocapitalismo e dello svecchiamento culturale hanno intasato le case editrici”.
È morta a 91 anni in un sereno pomeriggio romano, il 29 giugno, ed è stata sepolta ieri, con funerale nella Chiesa degli Artisti a Piazza del Popolo.
Qualcuno tirerà un sipario, oltre che a un sospiro di sollievo; eppure, aveva ragione lei.
A suo modo non si può negarle una grandezza, oserei dire una fierezza che aleggiava come una minaccia sul mondo poetico italiano. Aveva una considerazione internazionale, non lo smentiva, anzi: è stata custode della memoria di Montale (lui le scrisse mille e trenta lettere) e con la spada dello stile montaliano ha giudicato generazioni di autori, giovani, esordienti o meno, presidente della giuria del premio Montale, appunto, e di molti altri.
Dei suoi tempi, era nata nel 1922, possiamo infilarla in una quaterna di donne-poeta memorabili: Amelia Rosselli, Cristina Campo, Alda Merini e lei, la Spaziani (con buona pace dei suoi detrattori), in ordine: la sensibile, la coltissima, la pazza, l’amante.
Quattro colonne della prima poesia femminile che si affaccia in Italia, se escludiamo Antonia Pozzi, nata nel 1912 e presto suicida, quindi non sufficientemente forte da generare una potente influenza letteraria come le sopracitate.
Di lei, la “volpe” così la nominava Eugenio il Vecchio, per distinguerla dalla “mosca” Drusilla Tanzi, la vera donna della sua vita, cosa si può sinceramente dire, ora che si guarda dall’alto di quasi un secolo dalla sua nascita? Ora che sono emerse generazioni di poete, non “poetesse” che si sono liberate dal sentimentalismo diaristico (poetesse appunto, come lei le definiva dispregiandole) e che hanno bene in pugno la poesia del nuovo millennio, forse la tengono più stretta dei loro compagni poeti, con più saldi attributi…
Aveva talento? O semplicemente “stile”, il bello stile che è stato distrutto da quelli del Gruppo 63 e che ora si sta faticosamente risignificando senza cadere in nostalgie copiative di cui sono piene le fastidiose e inutili auto-pubblicazioni che invadono e intossicano il terreno poetico attuale?
Lei aveva talento, eccome; e forza, e competenza. Aveva saldezza di arte, ma la sua fortezza è diventate con il tempo la sua prigione; ha passato tempi duri e bui. Ha scelto il ruolo dell’amante ma ha anche voluto andarsene; poi si è tenuta il merito. Possiamo giudicarla per questo? Anche altre grandi donne sono state compagne di grandi autori, solo che lei si è presa il migliore; Ungaretti pure, seppure dopo la morte della moglie Jeanne, ebbe una giovane amica, una promessa poetica di cui non ci si ricorda manco più…
Maria Luisa Spaziani è davvero stata una grande: le sue sono tutte poesie d’amore. Montale non lo è mai stato, un grande amante intendo, le sue più belle parole d’amore sono state scritte dopo la morte della moglie (“ho sceso dandoti il braccio…”), troppo tardi! Ce le godiamo noi. Ma lei, Maria Luisa, non ha mai smesso di coltivare il sentimento amoroso e ne ha cosparso tutta la sua opera: non estasi né follia, come la Merini, ma la misura lucida e dolorosa della sua presenza, della nostalgia, della necessità dell’amore in dosi precise chimiche, dignitose; a volte alchemiche, raramente mistiche.
Se la Merini è una quasi-Medea, una Cvetaeva in dimensione italica, lei è stata l’Achmatova, la vestale, la composta e furibonda vedova, dignitosissima e illacrime. La padrona di casa, armata di perle. Armata di parole. Ascoltiamola:
“Quella freccia”
Si tende tutto l’essere in un urlo
di desiderio. Voglio la parola
lancinante, assoluta, che cancelli
scialbature di sempre.
Quella freccia che infilza dritta il cuore
mentre sorride l’Angelo, tremenda
voglio quella parola (la pronuncia
l’Angelo, ma oltre una vetrata) –
l’ha sentita Teresa? Ogni parola
al di qua della freccia è un’eresia.
È assoluta la rosa se si fonde
alla tua pelle – e le spine sul cuore.