Una nuova classe di concorso per docenti da destinare agli alunni stranieri: l’ha promesso ieri il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, parlando a Firenze in occasione degli Stati generali della lingua italiana. Le parole della Giannini fanno seguito alla proposta del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ha messo nel pacchetto di provvedimenti con i quali vorrebbe estendere i diritti civili anche la cittadinanza agli alunni stranieri, figli di genitori immigrati ma residenti in Italia, a condizione che completino un ciclo di studi nel nostro paese. E’ il cosiddetto ius soli temperato. Ma Giuseppe Bertagna, pedagogista, eminenza grigia della riforma Moratti, non è d’accordo.
“La lingua italiana deve diventare strumento di inclusione e integrazione dei tanti bambini stranieri che crescono nel nostro paese: su questo ci sarà una nuova classe di concorso, i tempi sono maturi” ha detto il ministro. Che ne pensa, professore?
Da una premessa non solo vera ma pedagogicamente di valore si ricava una conseguenza del tutto sbagliata. Già la segmentazione delle classi di concorso esprime il riferimento al fordismo didattico. Roba che nemmeno nell’impresa moderna è più spendibile, si immagini in un luogo come la scuola della globalizzazione e delle nuove tecnologie della comunicazione. Aggiungere una specifica classe di concorso per insegnare l’italiano agli stranieri significa, quindi, lanciare tre messaggi forse tanto involontari quanto, per citare un aggettivo classico della sociologia, “perversi”.
Vediamoli. Il primo?
Tutti i docenti che insegnano in italiano sono autorizzati a “scaricare” l’integrazione degli stranieri con la lingua nazionale al docente di questa annunciata classe di concorso. Non basta l’esperienza storica dei docenti di sostegno per ammaestrare su questo vistoso rischio?
E poi?
Il secondo: non solo, in questo modo, si confermano, ma si amplificano i difetti della formazione iniziale dei docenti, anch’essa improntata sul modello epistemologicamente separatista. Il terzo: si legittima per altri 50 anni il modello organizzativo — graduatorie, classi di concorso, classi d’età, trasferimenti, orario settimanale ripetuto per 33 settimane, concorsi che seguono logiche lontane dalla selezione per competenze, ecc. — che avrebbe dovuto già essere perfino per legge superato da 15 anni perché ritenuto al servizio non dell’educazione autentica e di qualità delle persone, ma dell’auto-riproduzione istituzionale della burocrazia sindacal-ministeriale.
Questo giornale ha dato voce a molte perplessità riguardanti la presenza preponderante di alunni stranieri nelle nostre classi. Secondo lei il problema come andrebbe affrontato?
Con il modello organizzativo e istituzionale attuale il problema è irrisolvibile. Servirebbe il coraggio di rovesciarlo. A cominciare dal non ragionare più per “separazioni”, ma da una didattica rinnovata anche nel metodo e ispirata al paradigma della complessità. La personalizzazione dei piani di studio nell’ambito di un’offerta organizzativa e didattica flessibile, nella quale i gruppi sono mobili nel tempo e nello spazio a seconda dei compiti, dei livelli o delle scelte elettive, pur nella continuità di un rapporto con compagni e docenti, poteva essere l’occasione per iniziare la svolta.
E per quanto riguarda i docenti?
Occorrerebbe una formazione iniziale che sensibilizzasse tutti i docenti ad usare il plurilinguismo e la multicultura non come problemi, ma come risorse per certi aspetti inedite e preziose per il dialogo critico interculturale anche e soprattutto a partire dalle discipline in cui si è abilitati.
Nessuna discriminazione quindi.
Semmai questo sarà l’effetto non intenzionale della proposta del ministro: se istituisco una classe di concorso specifica per insegnare l’italiano ai ragazzi stranieri non si potrà che incentivare la costituzione di classi di stranieri. Con tanti auguri per la cultura della complessità, del plurilinguismo e dell’intercultura. Che, faccio notare tra parentesi, è cosa lontana dalla multicultura.
Cosa non la convince del documento programmatico di Renzi su La Buona Scuola?
Da un lato conferma come un trascendentale dello spirito l’attuale modello organizzativo e istituzionale della scuola. Dall’altro non mette al centro dei processi didattici l’alternanza formativa esistente tra lavoro e studio, tra pratica personale e sociale e teoria formalizzata, con modi e tempi propri, nelle scuole di ordine e grado, non solo negli ultimi anni degli istituti tecnici e professionali.
Alla luce di queste considerazioni, le sembra più condivisibile il documento di Confindustria?
Credo non valga più la pena di discutere di documenti e di fare confronti tra parole. Sarebbe meglio fare confronti critici tra risultati di esperienze, di metodi, di innovazioni, finalmente di fatti che nascono da idee magari tra loro diverse. Forse la scuola crescerebbe meglio.
Ancora la Giannini, ieri: “Stiamo spiegando che l’ingresso presunto dei privati nella scuola, con un finanziamento, è del tutto infondato. Forse è uno slogan che hanno recuperato in un’altra stagione”. Come commenta?
Ciò che è pubblico non coincide né con il privato né con lo statale. Basterebbe riflettere su queste distinzioni concettuali per concludere, anche con ricerche empiriche, che può esistere ed esiste un “privato” che svolge funzioni pubbliche e sociali e uno “statale” che, purtroppo, risulta privatizzato da logiche corporative. Personalmente credo che il più grande finanziamento dei privati alla scuola pubblica statale e non statale sarebbe la messa a disposizione mirata e gratuita di reti di imprese grandi e piccole sul territorio, nelle quali gli studenti possano fisicamente fare con continuità alternanza formativa per maturare le competenze definite nel profilo educativo, culturale e professionale degli studenti del primo e del secondo ciclo. E scoprire, tutti, in questo modo, tanti lavori ben fatti ed imparare, tutti, anche i liceali, un lavoro ben fatto.
Cambierà la composizione delle commissioni dell’esame di stato, per ragioni di risparmio. C’è chi dice che in assenza di membri esterni verrebbe meno un importante elemento di valutazione obiettiva.
Lasciamo perdere la valutazione obiettiva; non c’era con commissari esterni, non ci sarà con commissari interni. Il problema, anche qui, è di sistema. Occorre trasformare le verifiche interne ed esterne in occasioni sistematiche di valutazioni interne ed esterne. Ambedue longitudinali, distribuite lungo tutto l’arco del percorso formativo. Allora sì non ci si concentrerà solo sull’esame di stato o di terza media. E le interconnessioni tra scuola e società, scuola e impresa, scuola che precede e scuola che segue, pubblico e privato potranno rivelarsi virtuose.
(Federico Ferraù)