Spesso sembra che le domande che si fanno gli scienziati siano strane, al limite dell’incomprensibile. Ma questa strana libertà di domanda non va intesa negativamente: se pensiamo che il giovane Einstein ha iniziato a lavorare alla sua più grande opera scientifica -la teoria della relatività- chiedendosi cosa poteva succedere se avesse attaccato un uomo a un raggio di luce, è chiaro che a volte domande a prima vista eccentriche possono aprire scenari impensati.
Sembra il caso di una recente ricerca svolta al MIT, il famoso Massachussetts Istitute of Technology, nella quale il fisico Jeremy England ha provato a misurare la velocità di crescita di un batterio -e fin qui niente di particolarmente esotico- chiedendosi quale sia la soglia teorica di quantità di calore che una cellula possa generare prima di raggiungere i suoi limiti termodinamici, e quanto la cellula ci si avvicini. Un tema quantomeno poco immediato…
Che un fisico parli di termodinamica è cosa sicuramente prevedibile; che però lo leghi alla biologia può risultare meno immediato. Il legame biologia-fisica è in questo caso facilmente spiegabile considerando la seconda legge della termodinamica, che dice che il grado di disordine dell’universo (l’entropia) può solo crescere. Anche se apparentemente le cellule e gli organismi sembrano contraddirla, la legge dell’entropia riguarda anche loro: infatti, per creare l’ordine e l’organizzazione che li contraddistingue, i viventi devono generare calore, che va ad aumentare l’entropia dell’universo. Si comprende perciò l’interesse di England per le quantità di calore disperse dalle cellule.
La sua ricerca si è focalizzata sul batterio di Escherichia Coli, più in particolare sul meccanismo di duplicazione, trovando che esso produce sei volte più calore del dovuto rispetto ai limiti della seconda legge. «Considerando di cosa è fatto un batterio e quanto velocemente cresce, quale potrebbe essere il minimo quantitativo di calore che dovrebbe emettere nel suo ambiente? Quando lo compariamo con quello che effettivamente sta emettendo, scopriamo che si trovano più o meno sulla stessa scala -dice England-: è relativamente vicino alla massima efficienza».
Questo significa che il processo potrebbe essere reso più efficiente. England si occupa di organizzazioni di sistemi biologici, utilizzando tecniche di analisi e di modellizzazione mutuate dalla fisica chimica, suo originario campo di studi: il suo approccio utilizza la meccanica statistica per calcolare le probabilità di diverse configurazioni di atomi o molecole. Il meccanismo preso in oggetto per questo studio, la duplicazione, vede il consumo di una grande quantità di nutrienti, il riassetto di molte delle molecole nella cellula, compresi DNA e proteine, e infine la divisione in due cellule.
Interessante approfondire come England abbia calcolato il quantitativo di calore necessario a questa operazione: il giovane scienziato ha infatti deciso di studiare la termodinamica del processo inverso. La caratteristica di un processo di unione è di essere in natura praticamente impossibile, cioè richiedere grandi quantità di energia per accadere. La probabilità di un processo inverso è stata stimata da England componendo le probabilità collegata a ogni singola reazione più piccola necessaria al processo completo. Per esempio, una reazione comune durante la replicazione è la formazione di nuovi legami peptidici, che formano l’ossatura delle proteine: la reazione inversa richiede circa 600 anni per accadere spontaneamente. Il numero di legami proteici in un batterio è circa 1 miliardo e seicento milioni e il calore per potenza elettrica necessario a romperli tutti è circa cento miliardi di unità naturali.
«Dovrei aspettare un tempo veramente lungo per vedere tutti questi legami dividersi», commenta England, il quale ha utilizzato questi dati per stimare il tempo necessario per osservare un’inversione spontanea della replicazione: l’ammontare minimo di calore necessario a un batterio per dividersi è poco più di un sesto di quello che la cellula di E. Coli produce realmente durante la replicazione. «Come fisico che cerca di contribuire allo studio della vita, ho trovato i suoi successi estremamente incoraggianti – ha commentato Carl Franck, professore di fisica presso la Cornell University – con eleganza, offre un’analisi quantitativa in un aspetto cruciale della materia vivente: la replicazione. Sta inserendo ciò che è semplice e interessante dentro qualcosa di estremamente complicato».
Ma quale può essere l’utilità di questo studio? Il risultato diretto della ricerca di England è che i batteri potrebbero crescere molto più rapidamente di quanto fanno ora e continuare a obbedire alla seconda legge della termodinamica. La velocità è così ridotta perché la replicazione è solo uno dei tanti compiti che una cellula deve svolgere. Per qualche applicazione biosintetica, si potrebbe al più pensare di creare qualche tipo di batterio che si divida un po’ più velocemente.
Lo stesso studio offre una giustificazione teorica al fatto che il DNA e non l’RNA si è evoluto come principale forma di materiale genetico. Il DNA è più resistente e non rompe spontaneamente i suoi legami, come fa l’RNA: questo, se da un lato, significa che l’RNA potrebbe avere un primo vantaggio rispetto al DNA perché cresce più velocemente, indica che a un certo punto, quando la vita è emersa sulla Terra, il DNA ha preso posto fisso e insostituibile. England sta lavorando anche sulle differenti tipologie di forze che potrebbero aver agito sui primitivi acidi nucleici; non solo: utilizzando lo stesso approccio teorico, sta cercando di modellizzare come cellule che si auto-replicano possano evolvere adattandosi a fluttuazioni ambientali.
E questo, se non ce ne fosse già abbastanza traccia in un numero notevole di persone coinvolte in tutto il mondo, è un segno di dove stia andando la ricerca in campo biologico, evolvendo lei stessa verso un approccio più fisico-matematico e permettendo una modellizzazione teorica insperabile solo pochi decenni fa. È proprio vero, come diceva il grande astrofisico Fred Hoyle che “nella scienza non sono importanti le risposte quanto le domande”, perché lo scienziato che pone la domanda giusta “esplora un pezzo nuovo dell’ignoto, e può, con un po’ di fortuna, ricondurlo entro i confini stretti, ma in espansione, di ciò che è noto”.