Sant’Ambrogio, Rapallo, 1939. C’è una casa arancione immersa negli ulivi. In basso, tra gli scogli di Zoagli, lo scintillìo del mare. La casa è essenziale, ha pavimenti di cotto rosso e soffitti celesti, ma il colore dominante è il bianco. È la casa della luce. Tre persone sono al centro della scena. Ezra Pound, il tragico Ulisse del ‘900, la sua bellissima compagna Olga Rudge (la violinista a cui dobbiamo la riscoperta di Vivaldi negli anni Trenta) e Mary, la loro figlia quattordicenne dai lunghi capelli biondi. Possiamo allargare il nostro zoom proprio su di lei.
Mary ha avuto una formazione eccentrica. Negli anni dell’infanzia è stata affidata a una famiglia di pastori a Gais in Tirolo. Poi ha conosciuto lo splendore di Venezia imparando a “dare del tu” all’arte, infine, perché la sua educazione fosse completa per l’ingresso in società, venne mandata a Firenze, destinazione il Regio Istituto delle Nobili Signore Montalve alla Quiete. La severa educazione religiosa.
Agli albori della seconda guerra mondiale sulle sue giovani spalle cade una responsabilità enorme. Suo padre, fulminante scopritore di talenti, da Eliot a Joyce, intuisce in lei una scintilla irripetibile: decide di affidarle, nonostante la giovane età e l’inglese ancora precario, la traduzione in italiano dei suoi Cantos, forse il più ambizioso sogno poetico del secolo scorso.
Tra gli ulivi del mar Ligure Mary inizierà ad applicarsi alla fatica che avrebbe segnato ogni istante della sua esistenza. Del suo labor limae, del suo costruire e cancellare, sappiamo molti dettagli grazie a Discrezioni, lo straordinario memoir che vide la luce nel giugno del 1973 per Rusconi e che sarebbe davvero l’ora di vedere ristampato (la copertina grigia del tempo incorniciava tre generazioni di Pound: nonno Homer, con i candidi baffi e il colletto della camicia straripante, papà Ezra con il profilo da profeta e la piccola Mary vestita da bambola e l’espressione molto corrucciata).
Discrezioni è ancora un’insostituibile messe di informazioni su Pound e sul suo cantiere più intimo, e, a tanti anni di distanza, non ha perso nulla della sua freschezza. Ecco un cammeo di un pomeriggio a casa Pound negli anni della guerra: “Il Babbo passava a Sant’Ambrogio i pomeriggi alternati; qualche volta veniva già a pranzo, qualche volta restava a cena, il che significa dalle due alle tre ore d’insegnamento… in quei due anni leggemmo tutto di Jane Austen, Thackeray, Stevenson, Hardy, e una dozzina di libri di Henry James; e il diario di Alice James… il Babbo forniva lavoro, azione, a fiumi, a sprazzi. Mi portò da tradurre in italiano Under the Greenwood Tree di Hardy. Mi sentivo lusingata e provocata — un essere ammessa alla sua “bottega”.
Il lavoro di traduzione era molto più duro di quanto avessi immaginato, ma col passare del tempo ascoltavo con ansia crescente l’avvicinarsi del bastone sui sassi della salita e poi il picchettio sulla porta, perché egli portava con sé una dimensione di — no, non di quiete — ma di grandezza, d’importanza. Mi faceva sentire che il lavoro, lo studio, era cosa valida, eccitante” (pp. 188-189).
Nelle serate a Venezia la piccola Mary aveva iniziato a percepire qualcosa della forza magnetica dei Cantos, ma mai si sarebbe aspettata di entrare nel vivo della fucina: “Alla fine del 1942 ero già immersa nella traduzione… Il suono, da quando il Babbo li leggeva a Venezia senza che io ne capissi una parola, s’era in un certo senso innestato in me, bello e armonioso. Ma il leggerli da sola fu uno shock. Ero un’affamata di fronte a un cesto di frutti esotici, non sapevo da dove cominciare, ogni sapore era sconosciuto…” (p. 196).
La scuola di Pound era molto severa. Non c’era spazio per domande inutili. Bisogna procedere un tassello alla volta, perché “la bellezza è difficile”: “Almeno che non fossi arrivata a uno scoglio insormontabile, non dovevo mostrargli la traduzione prima di aver una pagina intera battuta a macchina. E invariabilmente la faceva a pezzi…”.
Fu un magistero duro, ma molto fecondo. Mary non avrebbe imparato solo a districarsi tra le mille possibilità della traduzione, ma avrebbe a sua volta scoperto la vocazione di poeta.
Tra i momenti più intensi della sua autobiografia, c’è il ricordo della madre che suona il violino, una vera e propria epifania: “Ascoltai la Ciaccona di Bach, forse per la prima volta. Non la dimenticherò mai. Mamile aveva messo un leggio di ferro al centro della stanza e lei stava davanti alla finestra. A Venezia l’avevo sentita suonare per ore e i suoni mi opprimevano. Non l’avevo mai osservata. Ai concerti in casa d’altri la sbirciavo ogni tanto, ma non l’avevo mai veramente vista. Ora dinanzi a me stava un persona nuova… Era così bella perché suonava esclusivamente per il Babbo… Per tutto il tempo che suonava, nessuna traccia d’ombra o di rancore, gli occhi, violette chiare, luminosi. Finalmente, per un attimo, vidi il loro vero mondo nel terzo cielo” (p. 151).
Mary ha appena compiuto 90 anni. Vive nello splendido castello di Brunnenburg, sopra Merano. Fedele alla missione ricevuta, continua a lavorare sui Cantos, perché le traduzioni si possono sempre perfezionare. Entrare nel suo castello è come prendere la macchina del tempo. In quelle mura trovò riparo Pound al rientro in Italia dopo gli anni della reclusione in manicomio a Washington.
A Brunnenburg ogni pietra, ogni angolo, ogni suppellettile racconta di lui. Ci sono i mobili della casa di Rapallo, edizioni rare e rarissime, le celebri sentenze appese alle pareti: “Così vivere che i tuoi figli e i loro discendenti ti ringrazino”, “l’arciere che manca il centro del bersaglio cerca la causa dell’errore dentro se stesso”… Si può vedere anche l’assegno da 1500 dollari che Hemingway inviò a Pound nel 1958 e che l’autore dei Cantos non volle mai incassare nel completo disappunto dei famigliari…
Ogni tanto Mary, sfogliando i volumi della biblioteca paterna, trova ancora frammenti inediti di Pound: idee e lampi per nuove poesie. Qui, infatti, furono concepiti gli ultimi frammenti dei Cantos, forse il momento più intimo della sua opera: «Ho perso il mio centro / a combattere il mondo. / I sogni cozzano / e si frantumano – / e che ho cercato di costruire un paradiso terrestre» e, ancora: «Ho provato a scrivere il Paradiso / Non ti muovere, / Lascia parlare il vento / Così è Paradiso // Lascia che gli Dei perdonino quel che / ho costruito / Chi ho amato cerchi di perdonare / quello che ho costruito».
Sono versi affilati e luminosi come diamanti, sono il bilancio di una poetica all’insegna di quella bellezza così difficile che il vecchio Ez aveva cercato per tutta la vita.