Potrà forse risultare strano, se accostato alla sua drammatica vicenda biografica, ma la narrativa di Cesare Pavese è percorsa da un insolitamente elevato numero di scene di festa: all’osteria, nel bosco, in campagna, in collina, vicino al mare – secondo una sorprendente gamma di soluzioni e strategie narrative – i protagonisti dei romanzi pavesiani sono puntualmente coinvolti in un gesto di celebrazione collettiva. Perché? Ci si potrebbe chiedere. O meglio ancora: quale festa?
Ridotto ai suoi minimi termini, l’archetipo della Festa si divide in due modelli fondamentali di rappresentazione: quello della festa contadina (fatta di tradizioni e rituali di un passato ormai antico) o quello della festa borghese (in città o in villeggiatura, fatta di moda e mondanità), o meglio, in termini più pavesiani, quello della festa mitica e quello della festa storica. La festa passata, da una parte, ripete ciclicamente e ormai superstiziosamente i riti del pagus, sospesa com’è su uno spazio lontano e mitico, ormai bruciato dal falò del tempo. La festa in corso, d’altra parte, è vicina invece, a ridosso dello stesso fluire del tempo, in bilico tra l’istante passato da dimenticare (nel di-vertimento e nella vanità dei balli, delle donne fatali, del vino e persino della droga) e l’esorcismo di quello incombente, segnato com’è dall’inevitabile presagio del morire delle cose.
Che sia passata o in corso, ciò che è caratteristico è che a questa Festa i personaggi di Pavese non partecipano mai: anzi, nella loro posizione di esclusi, ne sono estranei. La loro è una festa mancata: quella del mito è infatti ormai perduta in uno spazio (come la campagna) troppo lontano dalla normalità, in un passato (come quello, per Doro e Anguilla, dell’infanzia), ormai troppo remoto per potervi far ritorno, esplorabile ormai con il solo occhio distaccato dell’antropologo; quella della storia attuale, è invece il luogo di un presente insopportabile, da attraversare o in uno stato di trance (da cui risvegliarsi senza più il minimo ricordo del terribile accaduto), o nella scelta autocosciente della propria solitudine.
Ora, se è vero, nella narrativa come nella vita reale, che la festa è il punto alla cui luce la realtà quotidiana prende significato e il luogo dove la vita ritrova l’evidenza della sua verità (per questo del resto i cristiani festeggiano la domenica), la deliberata posizione di non partecipazione del poeta agli eventi – che rivela drammaticamente sia la vanità dei rituali del passato che la finzione mascherata dell’ideologia dominante (quella borghese di Lubrani nel Compagno, di Morelli in Tra donne sole, di Poli nel Diavolo sulle colline) – si caratterizza come il luogo dell’autocoscienza sulla realtà (della “ferita aperta” della propria nudità di fronte al destino e di fronte al proprio “monolito”) e come il luogo dell’espressione radicale di una domanda “folle”: quella di Stefano nel Carcere, che, tra i lazzi dei paesani in osteria, rivela che alla festa del paese “la più bella non c’era”; quella di Rosetta in Tra donne sole, che, nel mezzo del baccano di una festa, esce con lo scomodo e inatteso “perché facciamo questa vita?” (e chi di noi si sognerebbe di porre una domanda simile ad una festa mondana?); quella di ogni escluso pavesiano che – sullo sfondo di “crisi” della guerra e della ricostruzione degli anni Quaranta, nei tempi in cui Pavese scriveva – sembra gridare al lettore con la propria stessa presenza: per chi si festeggia? Per che cosa? Ed in fondo che cosa si festeggia?
In tempi analoghi di grave crisi economica, ma soprattutto culturale e morale, la domanda incarnata dagli “esclusi” di Pavese è tutt’altro che banale: come loro, anche noi siamo stranieri a noi stessi in un’epoca di profonda transizione, e come loro anche noi viviamo a cavallo tra una festa finita (l’infanzia, il mito, l’età aurea del benessere del “prima”) e una nuova festa in corso (pur sull’ombra delle nostre stesse macerie) rivestita della nuova ideologia di “prosperità” (come la chiama Obama) del nuovo potere dominante. Di fronte alla festa passata (la fine del capitalismo?) o a quella in corso nella nuova era “positiva” del mondo, la follia scomoda degli esclusi di Pavese perciò non solo svela irriducibilmente la nudità dei nostri falsi idoli o il vuoto del presente e dell’ideologia (ricoperti come sono dalla trance bacchica dei riti antichi o del baccano della moda), ma ci mette anche in cerca di una speranza nascosta, costringendoci a porre sul serio la domanda: in questa realtà, così com’è, è possibile una vera festa?