E’ dell’altro ieri la notizia che lo studente di una scuola di Monza è stato allontanato dalla classe, per preservarlo (dice il preside) dal possibile e disgustoso accanimento (eventuale dico io) dei suoi compagni di classe in relazione ad una fotografia che ritraeva il ragazzino in atteggiamenti omosessuali.
La storia non è chiara e va da sé, come anche ne ha scritto su questo giornale Roberto Persico, che prima di definire l’azione del preside come un atto di lesione dei diritto oppure una buona azione sociale in difesa di qualcuno, di tempo ce ne vorrà. I contorni sono scuri e, spesso, la verità delle cose si intreccia a menzogne che invece si manifestano come principi sacrosanti.
Al di là della vicenda in sé, ciò che emerge sui giornali è soltanto una battaglia politica e culturale che cerca di strumentalizzare in un modo un po’ infantile, ma efficace, la vicenda stessa. Nella quale, per ora, non intendo entrare; se ci sono stati errori verranno appurati, si spera senza l’onda del moralismo imperante che purtroppo aleggia in ogni aspetto dell’esistenza umana in quest’epoca. Quello che mi preme sottolineare è ciò che oramai passa inosservato e che, credo, rappresenta il punto nevralgico di tutta la discussione che riguarda anche l’approvazione delle unioni civili, come anche le sue conseguenze sociali.
In questa vicenda emerge chiaramente che oramai l’identità viene schiacciata, strutturata e composta quasi solo ed esclusivamente dall’orientamento sessuale. Lui, quel ragazzo, innanzitutto è definibile nel suo orientamento sessuale. Lui è gay. Cosicché, a partire da questa riduzione, si possa aprire un battage politico a difesa di certe presunte posizioni che invocano la libertà in nome dell’identità auto-costruita.
E’ mai possibile definire l’identità di un uomo per il proprio orientamento sessuale? Come se noi, ciascuno di noi, fosse definito per il lavoro che fa o non fa, per la generosità che ha e per quella che non ha e conseguentemente, venisse misurato e approvato (o disapprovato) socialmente, essenzialmente per gli atti che compie.
Un assassino, anche il peggiore, non è un assassino. E’ tale per gli atti compiuti, per la legge, per la pena da espiare, ma lui, quell’assassino, non è solo quello. Non può esserlo. Per una semplice ragione: anche se lo è stato, nulla garantisce che lo sia, nulla garantisce che lui, in un altro atto, non possa far diverso. Lui come noi. Possiamo tradire un nostro amico e poi la volta dopo cercare disperatamente di riaffermarne il legame sincero. Eppure siamo stati traditori e contemporaneamente fedeli. Potremmo pagare socialmente per la nostra azione di tradimento, ma noi non saremmo mai definibili esclusivamente con quel gesto compiuto.
L’umana natura, per sua stessa definizione, presenta pecche imperfettibili e contemporaneamente (anche nello stesso istante!) slanci inimmaginabili di bene, imprevisti e imprevedibili da non poter essere rinchiusi in schemi definitori predeterminati. L’identità non coincide con gli atti che compiamo, men che meno con quello che pulsa nelle mutande. Basterebbe citare Dante: “Ciascun confusamente un bene apprende/ nel qual si quieti l’animo, e disira:/ per che di giugner lui ciascun contende” per capire che il moralismo moderno e la riduzione dell’uomo ai suoi atti (o peggio ancora al suo orientamento sessuale, da cui si voglion far derivare i diritti), dimentica la vera natura della nostra esistenza: uomini con l’inestirpabile necessità di tendere oltre sé.