Nel giorno del funerale di Dario Fo si è riverberata la polemica sulla candidatura di Letizia Moratti all’Ambrogino d’Oro: il Nobel di Milano. E’ un passaggio certamente meno accademico e cosmopolita rispetto alla glorificazione di Bob Dylan, ma sarebbe un errore sottovalutarlo. Milano è un posto parecchio glocal, capace di cogliere ed elaborare gli zeitgeist.
Le esequie laiche del Nobel-giullare di fronte al Duomo – con lo stendardo di Che Guevara ben esposto – hanno avuto molto di conformista, di rituale, di settario: di manipolatorio, in fondo, di uno spirito libero e di un grande artista della lingua italiana. Dylan – subito riallacciato a Fo – sta muovendosi con una laicità molto diversa. Mostra indifferenza verso l’omaggio della Grande Istituzione; sembra voler tenere a distanza, finché possibile, il rischio di venir pietrificato in icona di se stesso; resiste alla tentazione di re-investire subito il premio alla Borsa della politica. Magari annunciando che voterà Hillary Clinton e non Donald Trump (come si attenderebbero forse gli ex hippie che di Dylan pretendono di essere adepti esclusivi); o lasciando correre la voce che la prossima volta potrebbe candidarsi lui stesso a qualcosa: come un Arnold Schwarzenegger.
A chi si occupa di cronaca l’occupazione di Piazza Duomo da parte degli orfani Fo – quasi per un’ultima rappresentazione mangiapreti – ne ha ricordata un’altra di recente: la preghiera islamica di inizio 2009 . Quella volta le comunità musulmane di Milano si scusarono con l’arcivescovo Tettamanzi (che da parte sua non una parola aveva voluto pronunciare contro chi pregava nella piazza centrale della città, nel proprio giorno festivo). Più di altri gli islamici milanesi sembrarono ricordare chi e cosa è stato Ambrogio: una vera auctoritas, un tecnocrate diventato vescovo perché 1600 anni fa sapeva perfettamente cosa e come attenesse alla sfera civile e cosa a quella religiosa. Gliel’aveva insegnato, fra gli altri, il suo amico Agostino: uno al quale il Nobel per la letteratura l’avrebbero dato senza attese o dibattiti. Senza quei due vescovi cristiani-cattolici – entrambi indiscutibilmente milanesi – difficilmente gli islamici avrebbero potuto professare liberamente la loro fede in una grande metropoli europea in questo impervio inizio di terzo millennio.
L’addio a Fo (non Fo) ha ricordato la sopravvivenza di una Milano irriducibilmente divisiva, in quanto tale una non-Milano. Quella che agli ultimi 25 aprile ha insultato – oltreché la memoria della Brigata ebraica – un sindaco della città come Letizia Moratti, che spingeva la carrozzella di suo padre, ex partigiano ed ex deportato a Dachau. Ora questo sindaco è stato candidato all’Ambrogino d’oro e il centrosinistra che adesso governa la città (grazie alla candidatura a sindaco dell’ex city manager della Moratti, Maurizio Sala) glielo vorrebbe negare.
Moratti è il sindaco che ha inventato e poi costruito la candidatura della sua città all’Expo 2015: progetto di successo prima, durante e dopo (non come le Olimpiadi 2024 a Roma); tanto che il premier Matteo Renzi addita a ripetizione i sei mesi sulla piattaforma di Rho come modello dellla sua Terza Repubblica. Ma la sinistra che vuole la Moratti damnata nella memoria milanese è’ la stessa – con l’eccezione di Pierluigi Bersani – che ha sempre combattuto e negato Bernardo Caprotti: riguardo il quale Sala promette adesso di ragionare su un Ambrogino alla memoria, ma fra mille “se”.
Il patron di Esselunga aveva nelle vene il sangue milanese di un boom rigorosamente democratico. Lo stesso sangue di due Nobel meneghini di quegli anni: il poeta Salvatore Quasimodo, il siciliano che per una vita insegnò italiano al Conservatorio; e il chimico Giulio Natta, quello che al Politecnico aveva inventato ilmoplen. Non la bomba atomica ma la plastica utile a tutti ogni giorno.
La sinistra che rivendica ossessivamente il proprio primato politico-morale è invece quella che non trova ancora il coraggio di re-includere nella memoria ambrosiana (nazionale) Bettino Craxi: primo premier espresso dalla sinistra democratica nell’Italia repubblicana, tuttora sepolto fuori d’Italia.
(Alla fine degli anni 50 del secolo scorso, l’Accademia delle scienze di Stoccolma chiese al governo sovietico di rivelare chi aveva progettato lo Sputnik: gli sarebbe stato assegnato il Nobel per la fisica quasi per acclamazione. Mosca non fece mai il nome di Sergej Korolev – l’Ingegnere Capo – finché fu in vita. Era uno scienziato ebreo, allievo di Roberto di Bartini, italiano di Fiume. Le purghe staliniane degli anni 30 avevano spedito Korolev nel gulag della Kolyma. Fu semi-liberato per dare la polvere agli Usa nella corsa allo spazio: primo satellite artificiale, primo volo umano in orbita, primo navicella a tre posti, prima passaggiata extra-veicolare, primo allunaggio artificiale. Dicono che se Korolev non fosse morto giovane, il primo uomo sulla Luna sarebbe stato un russo, non un americano.
Neil Armstrong nel 1969 era un cittadino americano ma sulla Luna sbarco’ con un passaporto per buona parte tedesco. Il padre del progetto Apollo fu Werner von Braun: sognava l’uomo sulla Luna fin da quando, poco più che ventenne, sperimentava i primi razzi in Germania. La Germania nazista. I primi missili di von Braun trasportavano le testate V2 che colpirono Londra alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Anche von Braun, naturalmente, visse all’inizio negli Usa come quasi-paria e non fu mai candidato al Nobel.
Pochi giorni fa il presidente americano Barack Obama, sintesi di ogni politically correct, ha annunciato che l’uomo – americano – sarà su Marte entro il 2030. Ma se accadrà veramente sarà merito di Korolev e von Braun: i due pionieri – diversamente “impresentabili” – del volo spaziale.
Attenzione a trasformare certi premi in misteri buffi o in tragicommedie.
Attenzione, a Milano, a confondere l’Ambrogino d’Oro con lo Zecchino d’oro.
Attenzione, in Italia, a continuare nominare senatori a vita i Gianni Agnelli e non gli Enzo Ferrari. Solo perché hanno marciato – magari più veloci di tutti – sulle corsie vietate dalle ideologie del secolo scorso.