Franco Volpi ha lasciato la traccia più nota e più visibile del suo lavoro filosofico nella vastissima opera di traduzione, soprattutto di Heidegger e di Schopenhauer, in italiano. Discutere con lui, come mi è capitato spesso, del modo con cui rendere un termine tedesco nella nostra lingua, o dell’eco che bisognava far sentire, anche in italiano, di un suffisso o di una radice presenti in una parola straniera – e grazie ai quali si potesse avvertire tutta la densità di significato che la grande tradizione filosofica ha lasciato in eredità al nostro vocabolario – era un’occasione sempre utile e affascinante per imparare a comprendere che tutte le nostre parole sono in realtà dei “gesti” in cui viene portato e comunicato un significato che non possiamo dare per ovvio o per acquisito, ma che va sempre interrogato, aperto, “tradotto”.
Questo significato è come se “vivesse” sempre dentro i termini di cui ci serviamo per parlare, ma al tempo stesso non può mai essere ridotto alle parole con cui lo esprimiamo. E l’arte di Franco – tra l’artigiano e il rabdomante – era appunto quella di lasciare sempre teso lo spazio tra l’origine del senso (un’origine innanzitutto storica, ma anche metafisica) e la sua traducibilità, tra il suo rendersi presente e utilizzabile nel nostro parlare – cioè come contenuto di coscienza e di esperienza – e l’enigma mai totalmente risolvibile della sua provenienza.
Questo tuttavia non ha mai voluto dire per lui scivolare verso l’ineffabilità un po’ vaga se non “misterica” cui spesso si finisce quando si tratta di autori come i grandi tedeschi sopra citati, per i quali spesso il linguaggio diventa un feticcio, quasi un’occupazione da “sciamani”, come amava ripetere Volpi, prendendone però discretamente le distanze.
Il fatto è che egli ha voluto sempre riportare anche le più vertiginose esperienze filosofiche del Novecento, l’epoca del “nichilismo” compiuto – lì dove l’“essere” sembrerebbe giungere all’estremo limite della dicibilità, confinando e infine ritraendosi nel nulla – al mondo della vita e all’esistenza umana come loro origine, anche qualora tale origine fosse negata o contraddetta. In qualche modo è sempre nell’esperienza che bisogna trovare il criterio con cui giudicare del significato della realtà e della verità dell’essere, anche qualora l’esperienza si presenti come la perdita del senso e lo smarrimento del vero.
Non a caso Volpi ha letto gli autori contemporanei con lo sguardo di un “aristotelico” (che egli aveva appreso anche da un maestro come Enrico Berti), specie per quanto riguarda il significato cruciale che è da attribuire al logos, cioè la possibilità di comprendere la realtà come un “tutto”. Da questo punto di vista, pur attraversando la critica di Nietzsche e di Heidegger ad un “logos” ridotto a una mera prospettiva soggettivistica o alla ragione calcolante che domina nella tecnica, Volpi ha richiamato insistentemente l’attenzione sulla «plurivocità» del logos, che non è solo il «logos della techne», ma anche il «logos della praxis» (nel senso dell’agire morale) e il «logos del theorein, nel senso del domandare, cioè del chiedere ragione e del mettere in questione che sono propri del filosofare» (Heidegger e Aristotele, Daphne, Padova 1984, p. 217).
Per cui se da un lato è vero che la filosofia moderna avrebbe come sclerotizzato l’ideale greco della scienza (episteme), questo è successo proprio perché è stato dimenticato il logos, vale a dire la sempre aperta possibilità di riconoscere i molti sensi dell’essere, cioè la molteplicità variegata del reale, attraverso il nostro linguaggio, raccogliendola in “uno”.
Un’unità che sfida la frammentazione e va ritrovata all’interno di essa, quasi un filo conduttore attraverso le tante decostruzioni del nichilismo. Per questo, alla fine del suo bel libro su Il nichilismo (Laterza, Roma-Bari 2004), prendendo sul serio il fatto che questo fenomeno non sta a dire soltanto perdita del senso e smarrimento della verità nell’epoca della tecnica dispiegata, ma anche e sempre l’attesa – quasi impossibile e pur sempre riaffiorante – della salvezza del “tutto”, Volpi richiama un aforisma del suo amato pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila: «Pur sapendo che tutto perisce, dobbiamo costruire nel granito le nostre dimore, fossero anche quelle di una notte».