“Ho letto Shakespeare che mai avevo letto. Ho riletto bene Dante. Sto rileggendo Omero. Presto m’arriverà Virgilio… Sto leggendo Stendhal, devo leggere Proust, a malincuore, a fatica, almeno il primo che mi ripugna. Presto dunque mi metterò al lavoro… Certo, poi, tornerò a scrivere. L’ambiente non mi è molto favorevole…”.
Era il 20 marzo 1948 e questo era l’ambizioso programma di lavoro di Eugenio Corti per completare la propria formazione di scrittore.
Dalla sua vita maturata anzitempo poteva trarre materiale abbondantissimo per iniziare a narrare, tenendo sempre come faro di riferimento l’autore dell’Odissea che aveva scoperto sui banchi di scuola. Sulla scia di Omero, infatti, Corti aveva viaggiato: la campagna di Russia prima di tutto, poi la lunga solitaria fuga a sud, dopo l’8 settembre, da Nettunia verso la linea degli Alleati, passando per un Abruzzo edenico e selvaggio, e, infine, la dolente risalita dell’Italia combattendo palmo a palmo contro i tedeschi.
Come Omero, Corti aveva incontrato tutti i volti della guerra: aveva visto morire gli amici, altri li aveva visti sopravvivere in modo sorprendente, aveva toccato i tentacoli del male, ma anche la possibilità del bene, accarezzando il sogno dell’amore per sempre, di una “Beatrice” che gli restituisse la luce dopo tanto buio.
Di tutta questa esperienza, ora conosciamo nuovi dettagli grazie a un’antologia dei suoi diari inediti appena curati da Vanda Corti e da Giovanni Santambrogio: Il ricordo diventa poesia. Dai Diari, 1940-1948 (Ares, Milano 2017).
Leggere questi quaderni è un carotaggio dell’anima. C’è un ragazzo che si affaccia alla vita, le prime lezioni universitarie, le bombe su Milano viste in presa diretta, l’amore per la contemplazione e la natura, gli albori della naja, la Via Crucis bellica, le speranze e le disillusioni del Dopoguerra, e, soprattutto, la sete inestinguibile di verità e bellezza.
Dallo zibaldone di Corti emerge subito la consapevolezza della propria vocazione. A vent’anni annotava: “Fin da fanciullo posso dire, ho sempre avuto il desiderio di scrivere qualcosa. Era un desiderio indefinito: ma in questi ultimi anni, esso è venuto acquistando caratteri ben determinati, specie dopo che mi sono convinto che questo dello scrivere è lo scopo della mia vita” (16 febbraio 1941). Incerta era solo la veste da dare al suo lavoro. Qualche mese più tardi rifletteva: “Non filosofo, devo cercare d’essere, ma poeta” (22 agosto 1941). E in queste pagine la poesia affiora spesso e con naturalezza. Per descrivere, per esempio, lo splendore di una nevicata in giardino, che, a sua volta, diventa l’occasione per sognare la donna che un giorno avrebbe voluto incontrare: “Alzai allora gli occhi al cielo ed ecco che esso mi apparve come se lo raffiguravano gli uomini di un tempo: una gran volta solida e sottile ma alta, altissima, altissima, oh! come alta: e qua e là era trapunta di rare stelle, tutte d’uguale grandezza. A un tratto, da lontano, per un colmo di felicità, giunse il rintocco affrettato di un campanile sperduto. E allora, senza volerlo, appassionatamente pensai a te fanciulla che non conosco e che sarai un giorno la mia compagna, e cercai di comporre i tuoi lineamenti con raggi rubati alla luna e tolti ai riflessi della neve candida: ma la tua immagine sparì prima, molto prima ch’io l’avessi modellata. Rimasi solo tra gli alberi coperti di neve, sotto il cielo trapunto di stelle: ma la felicità che il pensiero di te m’aveva dato nulla poté togliermela, e mi rimane ancora nel cuore. Così, nel ritorno, ringraziai il Creatore Onnipotente”.
Quel Creatore a cui Corti fu sempre fedele e con cui aveva fervidamente dialogato prima della sua avventura sotto le armi: “Signore, sto per incominciare questa grande fase di vita che Tu mi hai mandato. Essa serba tanti pericoli, o Signore: aiutami Tu, per l’intervento della Madonna, a superarli. Io so che nessun uomo, da solo, può resistere al male. Nei giorni futuri potrò provare l’orrore della guerra: non permettere o Signore ch’io rimanga sul campo. Se è nei Tuoi disegni ch’io provi il dolore della ferita, o lo strazio della prigionia, ebbene, sia, l’accetto fin d’ora. Ma non volere, o Signore, ch’io perda la vita, non volerlo, perché io possa tornare e presa la penna cantare le gesta d’una Nazione che tanto T’amava e che è stata schiacciata; non volere perché non vada perduto per sempre il valore, la nobiltà, l’onore di una terra santa, di quella terra che forse più di tutte Ti ha amato e che ora, più di tutte soffre, la Polonia” (27 febbraio 1941).
p.s.
Corti incontrerà la donna che aveva tanto sognato nel luglio del 1947 tra le mura dell’Università Cattolica: si trattava di Vanda di Marsciano che sposerà ad Assisi nel 1951. Così accenna nel Diario: “Dovrei ora parlare di V., più importante di quanto detto finora. Ma non lo faccio…”.