Spesso, specialmente quando l’oggetto del discorso è un dolore così grande che è quasi “innominabile” o in cui letteralmente mancano le parole, ci si accorge che il cosiddetto vocabolario del dolore non è poi così ricco e la nostra lingua non sembra fare eccezioni. In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera, il linguista Giuseppe Antonelli ha parlato di recente della mancanza di un’espressione che in italiano possa identificare quei genitori che sperimentano una delle esperienze più dolorose e laceranti, ovvero la perdita di un figlio, interrogandosi anche su quali possano essere le cause di questo “vulnus” nel dizionario. Insomma, non si dice: non c’è un modo di nominare un padre e una madre a cui muore un figlio, quasi come se la lingua stessa e l’uso comune che se ne fa vogliano emarginare nell’osceno (ovvero, etimologicamente, al di fuori della scena) un dramma così grande e quindi non dargli dignità e, di conseguenza, consistenza reale. A detta del 47enne linguista aretino, questo è dovuto al fatto che certe cose non si vuole dirle, e non ci sarebbe da stupirsi visto il tema in questione: lo stesso accade con altri tipi di lutto, ma anche con malattie gravi e con quelle menomazioni fisiche che si ha vergona a mostrare, figurarsi a parlarne. Insomma, per Antonelli si sfocia nel campo del tabù linguistico che, in passato, si è pure cercato di eliminare senza però riuscirvi.
COME UNA LINGUA SCEGLIE DI RACCONTARE IL MONDO
Nel suo lungo intervento apparso sull’inserto culturale La Lettura del quotidiano milanese, Giuseppe Antonelli passa comunque in rassegna quelli che sono stati in passato i tentativi di fare un referente linguistico alla figura del genitore che perde quanto di più prezioso possa avere: lo scrittore franco-algerino André Chouraqui aveva inventato il neologismo “désenfanter” che ricalcava la parola spagnola “deshijado”, della quale esistono attestazioni sin dal Seicento. Nel vocabolario italiano, invece, esisterebbero pure i termini “sfigliata” e “desfigliata” ma sono di uso rarissimo e, inoltre, sono spesso intesi nell’accezione di “non aver avuto figli”. Anche “orbato” e “orbo” ricorrono nella nostra tradizione letteraria ma non sono mai entrati nell’uso comune e comunque si tratta “di significati secondari”: insomma, secondo Antonelli non v’è traccia di un termine adatto e la spiegazione è che ogni lingua sceglie diacronicamente, attraverso il modo in cui si rapporta alla realtà, come raccontare e dire il mondo e a influire possono essere le usanze, le leggi, la storia di un popolo o di un luogo.
“LA MANCANZA DI PAROLE PER APPROSSIMARSI AL DOLORE”
E se a questo “vulnus” abbia contribuito un mero aspetto statistico? Il linguista ammette che la riduzione del fenomeno della mortalità infantile potrebbe avere inciso e non va dimenticato nemmeno l’aspetto giuridico dato che “la scomparsa di un figlio, a differenza di quella del coniuge o di un genitore, non ha riflessi in questo campo e non necessita di definizioni univoche in sede legale”. Ad ogni modo, il risultato è che l’italiano, come pure altre lingue, di fronte al problema “ha scelto il silenzio” e forse la mancanza della parola, in riferimento a un vecchio intervento di Tiziano Scarpa sul tema, è un modo di “approssimarsi al dolore della perdita”: dunque, in conclusione, Antonelli afferma che, piuttosto che inventare parole nuove o recuperare forme arcaiche e in disuso, è meglio usare quelle che già abbiamo, di fatto imparando ad “accettare la reciprocità del lutto” e non solo quella più comune e semplice che esiste in amore.