Secondo l’ultimo rapporto di “Trasparency international” presentato quest’estate, l’Italia è al 61esimo posto nel mondo per corruzione nei rapporto tra Stato e privati. E’ risalita di otto posizioni rispetto al 2014 ma è sempre lì, tra i reprobi. Non che queste classifiche siano oro colato, anzi: e scoprire il Qatar fra i paesi virtuosi più che sorprendere fa ridere; ma che il problema corruzione in Italia sia tutt’altro che risolto e la situazione sia sostanzialmente ferma ai livelli precedenti Tangentopoli è, come dire, innanzitutto una constatazione empirica, che la cronaca giudiziaria e politica di ogni giorno s’incarica sistematicamente di confermare.
Quanto mai opportuna, quindi, la riedizione del fulminante Cleptocrazia di Giulio Sapelli, che torna vent’anni dopo — e quella con Dumas purtroppo è un’assonanza troppo nobile, vista la materia — a scuotere le coscienze.
Già, scuote le coscienze perché si sono riempite biblioteche di dibattiti politici sul problema, ma l’unico metodo seguito, nei fatti e non certo a valle di una profonda riflessione giuridico-politica, e gli unici attori a seguirlo, cioè i magistrati inquirenti, non ha/hanno ottenuto alcun effetto sull’obiettivo strategico che si pretendeva di perseguire, cioè un’apprezzabile moralizzazione e contenimento del fenomeno. Inevitabile chiedersi, allora, il senso di tanto spargimento di dolore, veleno, turbolenza socio-politica.
Ma la lezione che in fondo promana da Cleptocrazia è che — scrive l’autore nella premessa alla riedizione — “la corruzione, da quando esiste lo scambio sotto qualsivoglia forma, è fisiologica nel suo presentarsi tra gli aggregati umani. Il problema scientifico inizia quando essa da fisiologica si fa patologica, ossia tale da inibire lo scambio o da renderlo troppo costoso. Di qui l’elemento normativo. Prevenire la corruzione deve dar luogo a strumenti di trasformazione antropologica degli attori dello scambio e di creazione di un ambiente adatto a diminuirne la pervasività anziché aumentarla”.
Più che accusare di inefficacia gli strumenti finora adottati in Italia, da Tangentopoli in poi, bisogna riconoscere che non ci sono stati strumenti degni di questo nome. E quei pochi che promettevano di esserlo sono stati boicottati dal sistema.
Quel che sembra guardare con maggior interesse Sapelli sono le misure tipiche dei paesi a common law, che responsabilizzano gli attori più sui risultati che sui processi. Ma quando si scopre che le scuole del cratere sismico di Amatrice, ricostruite come antisismiche meno di dieci anni fa, erano state fatte con la sabbia e quindi si sono sbriciolate alla prima scossa si capisce che la corruzione può annidarsi ovunque, e nascere e pascersi di crimini ben peggiori, perché quello in specie si chiama “strage colposa” ed è da ergastolo.
E dunque? L’impeto che prende porta a dire: insistiamo e non molliamo. Guai a considerare la corruzione con quell’indulgenza rinunciataria con cui si guarda al contrabbando di sigarette o alla guida delle moto senza casco nel nostro Sud. Reprimendo l’uso estorsivo delle misure cautelari in questo ambito come peraltro in tutti, che la magistratura però possa lavorare.
Che le gare d’appalto — a prescindere dalle norme già discusse di un codice da troppo poco tempo in vigore per essere ben misurabile nei suoi effetti — siano sempre più digitali, nella misura in cui la digitalizzazione dei processi prosciuga il brodo di discrezionalità in cui sguazzano corrotti e corruttori, fatto di termini perentori di consegna dei documenti che vengono sistematicamente fatti violare dai concorrenti che devono perdere o clausole in corpo 6 non visibili da chi non sia informato preventivamente eccetera.
Sapelli rileva però con grande acume i cambiamenti strutturali intervenuti in questi vent’anni a carico degli “attori” di questo mercato corruttivo: le grandi imprese italiane “non ci sono più”, dice lui: in realtà sono diminuite. E i grandi partiti non ci sono più. “Lo Stato si è devertebrato. Per alcuni anni abbiamo pensato che l’unica vertebrazione rimasta — esclusa quella che appare classicamente in questi casi, ossia l’esercito — fosse l’ordine giudiziario trasformatosi in potere situazionale di fatto che colmava i vuoti lasciati da quelli scomparsi. Breve illusione, poiché anche lì la devertebrazione ha preso corpo con la lotta fratricida tra procure e nelle stesse procure. Ma la fisiologica corruzione universale ha continuato a operare”.
Vent’anni dopo la corruzione quindi fa i conti con tanti, ma più piccoli, centri di potere, deve moltiplicare i suoi scambi riducendone il valore unitario, paradossalmente coinvolge più personale, e quindi si presta a più facili “falle” e fughe di notizie: “Tutto naturalmente diviene caotico, disordinato, convulso, facilmente visibile. Devono essere in molti i concussori e i corruttori perché sono piccoli poteri (…) tanti piccoli attori che possono l’un con l’altro condizionarsi, tradirsi, aver comportamenti sospetti, come fa il ladro che fa un colpo e che poi si mette a spendere troppo e attira l’attenzione”, scrive Sapelli.
Che invoca poi due prese di coscienza forti, a suo dire necessarie per procedere nei tentativi civili di ridimensionare e circoscrivere la piaga. Indagare sulle banche, come peraltro sta accadendo per i tanti scandali della finanza nordamericana; e non continuare a credere — pur lasciandola agire, beninteso! — che possa essere la magistratura “a combattere la corruzione. Essa non la combatte ma la reprime quando si è già verificata. Per questo ho pena di un sant’uomo come il dottor Cantone (…) rischia di divenire un capro espiatorio. Lì ci vorrebbe un buon sociologo, un buon conoscitore della pubblica amministrazione, ma naturalmente non un giurista. Ci vorrebbe un vecchio saggio che è già stato, e che non deve più essere, eletto o cooptato”.
Giulio Sapelli, “Cleptocrazia”, Guerini e Associati, Milano 2016, 176 pp.