Siamo nella fase di warm up, di riscaldamento dei motori, termine particolarmente appropriato per l’evento mondiale che si svolgerà a Parigi dal 30 novembre al 12 dicembre 2015: parliamo della COP 21, la XXI sessione della Conferenza delle Parti della Convenzione sul clima. Il tema è cosa fare di fronte al riscaldamento globale e, prima ancora, capire bene di cosa si tratta evitando semplificazioni, sottovalutazioni, allarmismi.
In effetti sembra che l’unico modo di attirare l’attenzione su un argomento così decisivo sia quello del fare spazio alle posizioni catastrofiste, o meglio, di presentare in modo catastrofista qualunque tipo di analisi o resoconto scientifico. Così da qualche giorno i media iniziano ad essere “inondati” da allarmi che prospettano “l’inondazione” prossima ventura di grandi metropoli, da Londra a New York, da Rio a Napoli, causata dall’innalzamento del livello degli oceani conseguente allo scioglimento delle calotte polari a sua volta prodotto dal global warming.
Basterebbe, per generare tale tremendo sconvolgimento della faccia del Pianeta, superare quell’aumento di 2 gradi della temperatura media della Terra che alcuni stimano possibile entro il 2100 se non verranno prese misure antagoniste più che drastiche. Secondo un istituto che dovrebbe essere autorevole, come il Met Office (l’Ufficio meteorologico britannico) già ora la temperatura globale del Pianeta sarebbe aumentata di un entità compresa tra 0,91 e 1,13 gradi centigradi rispetto ai valori che aveva all’inizio dell’era industriale. Peccato che non sia così evidente quale fosse la temperatura della Terra a metà Settecento e chi poteva averla misurata con la precisione necessaria per stimare oggi quell’aumento.
Sul versante dei fattori scatenanti del global warming, il principale imputato (dai media) restano i gas serra, con la CO2 che secondo l’Omm (Organizzazione Meteorologica Mondiale) nel 2014 avrebbe raggiunto livelli di concentrazione di 397,7 parti per milione (ppm) e secondo altri istituto nel 2015 avrebbe superato le 400 ppm.
Ancor più decisamente catastrofista il risultato di un recente studio della Climate Central – un’organizzazione non profit americana nata nel 2008 con sede a Princeton – secondo le cui proiezioni a fine secolo la temperatura globale aumenterebbe di 4 °C per colpa delle emissioni di gas serra e ciò causerebbe disastri climatici enormi con aumenti del livello delle acque tali da provocare la scomparsa di molte terre emerse in tutto il mondo.
Accanto a questi scenari più o meno attendibili, ci sono però anche studi che cercano nella storia geologica passata del nostro Pianeta indicazioni più realistiche prima di lanciarsi in profezie e in simulazioni futuristiche. Come lo studio, i cui risultati sono stati appena pubblicati su Nature Communications, delle relazioni tra le modifiche della calotta polare antartica e il prosciugamento del Mediterraneo verificatosi 5-6 milioni di anni fa; lo studio è stato condotto dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) insieme a un team internazionale.
Per quasi tre secoli il Mediterraneo si è presentato come una valle profonda e arida con uno spesso strato di sale sul fondale; è una fase nota come “crisi di salinità del Messiniano” e sulle sue cause c’è sempre stato molto dibattito. Come ha spiegato Fabio Florindo, direttore della Struttura Ambiente dell’INGV e coautore della pubblicazione: «Le prime teorie imputavano la chiusura del Mediterraneo ai movimenti relativi delle placche litosferiche africana, araba ed euroasiatica che avrebbero chiuso lo stretto di Gibilterra. Altri ricercatori ipotizzarono, invece, che la causa principale poteva essere riconducibile a una glaciazione, con conseguente riduzione del livello globale degli oceani. L’abbassamento del livello degli oceani, infatti, fu tale che scese al di sotto di una soglia posta in corrispondenza dello stretto di Gibilterra, causando l’isolamento del Mediterraneo dall’Atlantico. In entrambi gli scenari la limitazione di apporto idrico, rispetto all’evaporazione, avrebbero quindi reso il Mediterraneo un grande lago destinato poi a prosciugarsi completamente».
Lo studio dell’INGV conferma questa ricostruzione, mettendo però in luce un sistema di cause molto più complesso e sottolineando il ruolo della fase glaciale e interglaciale come causa primaria per l’inizio e la fine del prosciugamento del Mediterraneo; il movimento delle placche litosferiche avrebbe anch’esso svolto un suo ruolo, ma non è stata la causa primaria. I ricercatori hanno dimostrato che, in conseguenza dell’evaporazione del Mar Mediterraneo, la litosfera intorno lo Stretto di Gibilterra ha iniziato a sollevarsi a causa della rimozione del carico d’acqua sovrastante mantenendo il Mediterraneo isolato dall’Atlantico. Col successivo ritiro della calotta antartica si è avuto un sollevamento del livello medio degli oceani. «Circa 5.33 milioni di anni fa il livello crescente dell’Atlantico era appena sufficiente per scavalcare una esigua barriera posta in corrispondenza dello stretto di Gibilterra, causando una catastrofica inondazione che in pochi anni ha riempito nuovamente il bacino del Mediterraneo».
Nel corso della ricerca è stato sviluppato un modello complesso – sviluppato al supercalcolatore da Paolo Stocchi del Royal Netherland Institute for Sea Research – che simula la dinamica della calotta polare e la conseguente oscillazione del livello degli oceani. «Il risultato – dice Florindo – indica che l’influenza della crescita della calotta antartica sul livello del mare non è uniforme su tutto il pianeta, in quanto il suo sviluppo comporta una complessa interazione tra effetti gravitazionali, rotazionali e le deformazioni della litosfera terrestre. Ne dobbiamo trarre l’importante conclusione che alla crescita o riduzione delle calotte polari le oscillazioni degli oceani avvengono con modalità irregolare. Una fusione parziale delle calotte potrebbe, quindi, determinare una variazione complessa del livello degli oceani, dando vita a nuovi scenari di cambiamento climatico».
Di questa “irregolarità” dovranno tener conto gli scienziati che stanno preparando le analisi sulle quali si baseranno le discussioni e le decisioni della COP 21.