Lo scontro tra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris, avviatosi fin dalla comparsa del nuovo realismo, ha avuto (anche) una valenza politica nel contesto della sinistra italiana, come ho avuto modo di osservare, credo per primo e proprio su questa testata. Questa fase dialettica non mi sembra conclusa, pur avendo esaurito in fin dei conti ciò che aveva da dire sul piano strettamente culturale. A essa mi pare si sovrapponga oggi una nuova fase polemica che si svolge, tra Ferraris e altri interlocutori, su almeno due fronti: sul piano politico, questa volta però in ambito liberale, e sul piano della filosofia teoretica, nel confronto tra realismi. Cercherò di mostrare la continuità tra questi due momenti e, inoltre, di spiegare quale sia, a mio parere, l’occasione mancata dal recente libro curato da Donatella Di Cesare, Corrado Ocone, Simone Regazzoni, Il nuovo realismo è un populismo (Il Melangolo, 2013).
Vediamo intanto il primo fronte, relativo alla polemica in ambito liberale. Ferraris denuncia la violenza dello svincolamento dalla realtà per come esso è proposto nel postmoderno. Egli inoltre mostra la deriva populista delle idee del postmoderno. Il riferimento alla realtà diventa invece, nella prospettiva di Ferraris, un fatto liberante, capace di favorire una democratizzazione della politica, perché proprio misurandosi sui fatti si possono smascherare le menzogne mediatiche dei potenti di turno. Per contro, agli autori de Il nuovo realismo è un populismo la lezione postmoderna sembra tuttora salutare. La difesa più esplicita del postmoderno è svolta, nel volume, da Lorenzo Magnani. Il postmoderno, secondo lui, avrebbe prodotto una “messe di conoscenze” capace di chiarire molto della realtà umana, sociale e culturale. Egli sottolinea, inoltre, che il fatto di mostrare che è possibile un uso ipocrita della verità, lungi dal danneggiare il concetto di verità, lo difende (p. 67). Il postmoderno, secondo la posizione di Magnani e di altri firmatari del pamphlet, renderebbe accorti, non ingenui, mentre il nuovo realismo sarebbe dogmatico e intollerante nel far credere che ci siano verità ultime e definitive (p. 5).
Per quanto mi riguarda, non sono mai riuscito a capire le ragioni di quello che sembra un autentico terrore vissuto da alcuni intellettuali per ciò che è definitivo, per ciò che è vincolante. Tale stato emotivo scomposto rende la nostra cultura attuale liquida e preconcettualmente refrattaria nei confronti di tutto ciò che è anche solo sospettabile di potersi rivelare un pensiero forte. Quest’ultima espressione è associata da certi critici, immancabilmente e con un automatismo sospetto, a “violento”, “dogmatico” o “intollerante” (vedi per esempio p. 5).
Vorrei notare due cose. In primo luogo, ammettere che ci sia qualcosa di vincolante la libertà non la compromette certo, semplicemente e banalmente ne riconosce la condizione vincolata. Senza vincoli, del resto, la libertà manca di uno spazio per giocarsi, per esprimersi, per essere creativa. Il vincolo crea le condizioni in cui la libertà si misura e svolge: l’alternativa di una libertà senza vincoli non è un di più di libertà, non di per sé almeno. Normalmente invece i vincoli sociali stanno alla libertà come l’aria sta alle ali di una colomba (prendendo a prestito il grazioso animale dal bestiario di Kant). In secondo luogo, solo superficialmente la posizione di Ferraris è poi tanto vincolante. Infatti, anche i coraggiosi, disposti ad aprirsi a un pensiero un po’ più forte delle gelatine deboliste, dovrebbero presto constatare che la posizione di Ferraris è tutt’altro che forte. Un punto questo che pare sia sfuggito ai firmatari del pamphlet. Per chiarirlo dovrò affrontare il tema del realismo. Si vede dunque che il dibattito politico si sposta su un piano teoretico.
Alcuni degli autori del pamphlet si dichiarano realisti (Laura Cervellione, Lorenzo Magnani, Corrado Ocone) e lo fanno con accenti che mostrano quanto sia variegato tale fronte. Gli autori però perdono, mi pare, l’occasione di notare che quello di Ferraris a veder bene è un antirealismo. Sì, proprio così: Ferraris non è un realista proprio quando ci si aspetterebbe che lo fosse. Per parte mia ho già avuto modo di dimostrare (Bloom 2012/14) che proprio in filosofia sociale, ove fornisce il suo contributo più originale, Ferraris non è affatto un realista. Per lui, certo, ci sono le sedie, i tavoli e le ciabatte. Per questo egli è un realista circa il mondo fisico. D’altra parte, tutto della realtà sociale, ritiene Ferraris, è costruito: “nulla di sociale esiste fuori del testo” e il testo stesso è un costrutto sociale. In filosofia sociale perciò egli è un antirealista e un costruzionista. Il problema del realismo di Ferraris dunque non è tanto che è banale, come si rimprovera nel pamphlet, quanto piuttosto che non esiste affatto. Come si può rimproverare a qualcuno di dire che ci sono cose come tavoli e sedie e accusarlo di essere violento e intollerante perché lo fa? Mi pare invece che meriti rimprovero quel filosofo sociale che si dica realista e che poi di fatto costruisca una filosofia sociale antirealista. Ferraris, del resto, non ha gli strumenti per fare qualcosa di diverso. Egli magari può protestare di poter sostenere un certo realismo, anche in filosofia sociale, perché “carta canta”. Ma la carta “canta” a chi la fa cantare (e lo spettro postmoderno riprende ad aggirarsi per Torino!).
Ciò a meno che non si esplicitino i criteri di vincolo, cosa che in Ferraris non è svolta. Inoltre, la semplice documentalità non basta a dare ragione dei vincoli sociali, del tutto reali, che sono molto più vasti dell’ambito effettivamente documentabile. Né il semplice riferimento alla testualità è sufficiente per chiarire i vincoli imposti dalla proceduralità. Per poter dare una spiegazione di tutto questo e del molto altro che compone la realtà sociale serve una teoria sociale realista di riferimento che in Ferraris non c’è.
Mi sembra dunque di poter osservare nel lavoro del filosofo di Torino e in quello dei suoi critici, rispettivamente, un’occasione mancata di realismo e una mancata denuncia di antirealismo.