Dal 2003 tutti gli Stati americani, e i Paesi anglosassoni in genere, stanno cercando di rendere obbligatoria, cioè parte integrante del curricolo scolastico, il Social Emotional Learning o educazione emotiva. Ne hanno scritto su Repubblica del 20 gennaio Mariapia Veladiano (“La scuola delle emozioni”) e l’inviato Massimo Vincenzi. Al centro “l’educazione emotiva ovvero insegnare ai bambini a gestire quello che capita loro attorno, comprendere i propri sentimenti, quelli degli altri, sviluppare l’empatia, domare rabbia e nervosismo”. E l’istituzione scolastica italiana? Deve o no investire anch’essa nei programmi di Sel? E se sì, perché? Vediamone brevemente gli argomenti a favore e quelli contro, per poi guardare la proposta da una prospettiva diversa.
Una premessa: quando parliamo di emozioni parliamo dello stupore che solo conosce, come diceva Gregorio di Nissa; oppure della noia per la quale Alberto Moravia accusava un’inadeguatezza, o scarsità della realtà; oppure della curiosità straordinaria con cui Galileo era mosso alla conoscenza dei fenomeni fisici; oppure dell’amore che occorre per comporre la musica, come sostiene il maestro Ennio Morricone; oppure del terrore con cui nel 1941 a Ostrog vecchi, donne e bambini ebrei – civili inermi – guardavano gli uomini che ne stavano per fare strage; oppure della gioia con cui Archimede gridò “Eureka!”; della felicità a cui tutti aneliamo; oppure della beatitudine che Gesù indicò come realizzazione umana, e che Dante descrisse con così alta dovizia di particolari nel suo Paradiso. Dunque non un dettaglio di poco conto, ma una parte essenziale di ciò che siamo; un elemento della grammatica umana.
Gli argomenti a favore del Sel sono numerosissimi: il quoziente di intelligenza emotiva è direttamente proporzionale al successo scolastico e poi a quello nella vita, nel lavoro, nelle relazioni interpersonali e persino a una buona salute; le emozioni positive migliorano l’intero bagaglio razionale (ad esempio aumentano l’attenzione e la memoria, oppure favoriscono le capacità elaborative e astrattive); le emozioni positive costituiscono capacità che si strutturano e sviluppano nel tempo esattamente come tutte le altre, oltre ad essere in stretta relazione con modalità conoscitive della ragione, come la creatività, l’immaginazione, la fantasia, l’intuito, poco considerate dal nostro sistema scolastico, ma ritenute essenziali da chi il mondo ha contribuito a conoscerlo davvero. Come scriveva Einstein: «La mente intuitiva è un dono sacro, e la mente razionale un suo fedele servitore. Abbiamo creato una società che onora il servitore, dimenticando il dono».
Poi, quando a scuola tutto va male (risultati scolastici mediamente negativi, comportamenti indisciplinati frequenti, ecc.), cambiare i docenti o rivedere i programmi didattici – di per sé – non porta a nulla, mentre il Sel si è dimostrato per i presidi l’unica effettiva risorsa, e non a caso.
Infine il Sel è preventivo dei comportamenti maleducati e indisciplinati, quando non delinquenziali, e questa è la ragione principale per cui interessa al mondo prima scolastico e ora anche politico anglosassone. Gli effetti di un’educazione emotiva e sociale vanno così al di là del successo scolastico, e non si capisce davvero come una società non debba prioritariamente investire su di essa.
Gli argomenti che, al contrario, vanno a detrimento del Sel sono numericamente inferiori, ma reali. In primo luogo e in virtù della connessione tra emotività e creatività, laddove l’unico obiettivo del Sel fosse la gestione delle emozioni negative (rabbia, agitazione, stress, tristezza, ecc.), ne verrebbe inficiata anche la capacità creativa umana. Chi dunque sarebbe abilitato a stabilire gli obiettivi del Sel? E poi, fino a che punto si può parlare di negatività delle emozioni negative? Ad esempio da Eschilo a Mounier, passando per Schubert, dalla sofferenza nasce una conoscenza vera delle cose («Le mie creazioni sono il frutto della conoscenza della musica e del dolore» scriveva quest’ultimo nel Diario, dopo aver composto la sinfonia n. 8 in Si minore, l’Incompiuta).
In secondo luogo, se la formazione dei docenti sul Sel venisse realizzata dagli psicologi, come avviene nei Paesi anglosassoni e come viene proposto anche in Italia, è una prospettiva psicologica quella che si vuol dare all’educazione emotiva, sottraendone all’origine tutta la portata antropologica (riduzionismo). E poi: chi pagherebbe questo esercito di psicologi? E quand’anche ci fossero i fondi, perché i docenti dovrebbero dotarsi di competenze che non afferiscono al proprio ruolo professionale? E qualora se ne dotassero, sarebbero mai in grado di utilizzarle appropriatamente? Ma soprattutto, perché dovremmo lasciare il campo educativo, che riguarda l’intera popolazione scolastica, all’avanzata psicologica, che invece riguarda solo il 2-5% della popolazione scolastica e solo per aspetti particolari?
Cambiamo allora la prospettiva con cui affrontare la questione. A scuola si va per insegnare e per imparare. Per l’uno e per l’altro occorre una ragione che si apra sull’oggetto e si pieghi alla sua verità in un realismo che scardina ogni preconcetto; una ragione vitale ed esistenziale, o costitutivamente intessuta delle domande fondamentali per la vita e l’esistenza dell’uomo; una ragione sempre tesa a conoscere l’oggetto dentro la relazione che stabilisce con esso, e cioè una ragione contemporaneamente cognitiva e affettiva; una ragione esperienziale, che non coglie l’oggetto se non nelle pieghe del suo concreto dispiegarsi; una ragione capace non solo di misurare, ma anche di cogliere l’oggetto nella sua totalità. La dinamica emotivo-affettiva − in collaborazione con quella cognitiva − è esattamente ciò che rende possibile una ragione così fatta, che le sole capacità razionali né riescono né possono garantire.
Solo una ragione così capace di conoscere il reale inerisce la professionalità docente nelle sue competenze specifiche. E solo una ragione così capace di entrare nel reale e, conoscendolo, di svilupparsi e maturare, inserisce il ruolo discente nelle sue capacità da acquisire. E solo una ragione così fatta, rende possibile la collaborazione educativa tra scuola e famiglia, la cui assenza è invece all’origine della prospettiva anglosassone.
Una ragione così può essere fatta maturare attraverso il curricolo già in essere, che peraltro deve essere motivato da un progetto educativo e non da emergenze sociali. Solo una ragione così rende i ragazzi capaci di entrare robustamente nella vita, nel lavoro, nella costruzione di una famiglia, nella capacità di risolvere le emergenze contemporanee creativamente, senza attendere il ruolo vicario dello Stato. Se l’educazione emotiva non coincide con il Social Emotional Learning, allora non solo occorre investire su di essa, ma nel caso in cui non venga fatto, occorre chiederne spiegazioni e attribuirne responsabilità.