“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere ‘Superato’. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza. L’inconveniente delle persone e delle Nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie d’uscita. Senza la crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lieve brezze. Parlare di crisi significa incrementarla e tacere nella crisi è esaltare il conformismo; invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla”.
Questo giudizio è di Albert Einstein, pubblicato su Il mondo come io lo vedo (Newton-Compton, 2012) apparso per la prima volta in Germania nel 1934.
Il mondo aveva da poco attraversato la grande crisi economica del 1929 e l’Europa si preparava a vivere anni molto dolorosi. “Benedizione” è una parola grossa, se pensiamo a chi perde il lavoro e non sa come arrivare alla fine del mese. Addirittura “la più grande benedizione”, dice Einstein. Credo che per capire cosa intendesse, occorra guardare alla sua vita di scienziato. La teoria della relatività ristretta, pubblicata nel 1905, è emersa in risposta alla cosiddetta “crisi della meccanica classica”.
Da più di vent’anni i fisici cercavano di capire perché la velocità della luce non obbediva alla legge galileiana di composizione delle velocità (quella per cui, se cammino su un treno, la mia velocità rispetto ad un osservatore fermo in stazione è la somma della velocità del treno e di quella con cui cammino). Si erano tentate strade, ma nulla era apparso soddisfacente perché era necessario un cambiamento profondo nella concezione dello spazio e del tempo.
Al genio non è dunque risparmiato il lavoro, come afferma Einstein stesso quando dice: “la creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura”. Sicuramente anche il grande scienziato ha tentato strade diverse ed è tornato più volte al punto di partenza, senza stancarsi di formulare e riformulare le domande fino ad intravvedere la risposta.
Quello che lo animava, e con lui tutta una generazione di fisici, si pensi a Plank, Bohr, Heisenberg, Dirac solo per citarne alcuni, era una grande certezza, la certezza che valeva la pena intraprendere una strada, a costo di trovarsi in un vicolo cieco e di dover ricominciare tutto.
Einstein era certo che la realtà fisica era intelleggibile e insieme non esauribile. Ed era la realtà l’oggetto da seguire: perciò ad esperimenti nuovi dovevano seguire teorie nuove anche a costo di abbandonare quello che si era capito e formulato fino a quel momento. Sappiamo quanto può essere costoso abbandonare il già saputo; per Einstein era naturale perché era l’unico modo per raggiungere la conoscenza del mondo fisico e così ammirarlo con quella “religiosità cosmica” che lo caratterizzava. L’armonia del cosmo, sintesi di bellezza e unità, era per il grande scienziato un dato della realtà così certo tanto che proprio sulla necessità di sintesi e unità egli fonda il grande lavoro di estensione della teoria della relatività ristretta nella teoria della relatività generale.
Credo che in questa prospettiva vada letto il parallelismo crisi-benedizione. La crisi, dal greco, “dividere”, “vagliare”, ci obbliga a mettere in gioco tutte le nostre forze, cioè a vivere senza subire cio che accade: e questa è davvero una benedizione.
Ma da dove nasceva questa certezza? Certezza della strada più ancora che del risultato? Come possiamo noi oggi recuperare la stessa certezza, qualsiasi sia la nostra situazione, il nostro lavoro, e perciò muoverci, rischiare? Mi facevo anch’io queste domande, finché mi sono commossa nell’ascoltare Papa Francesco: “Una Chiesa aperta, non una Chiesa chiusa; uscendo si rischiano incidenti, ma meglio l’incidente che la chiusura”. Ecco, mi sono detta, questo è lo stesso invito che ci ha proposto la testimonianza di Einstein: intraprendere la strada anche a costo di “incidenti” o di “vicoli ciechi”. Mai fermi, nè chiusi, pronti a vagliare tutto ciò che la realtà ci propone: solo così la vita respira. Anche nella crisi.