Poco più di un anno di pontificato e almeno sette discorsi ufficiali percorsi da un fil rouge che si chiama “lavoro”. Bastano questi due numeri a convincere chi ancora non se ne fosse reso conto della centralità del tema dell’occupazione nel magistero di papa Bergoglio.
Il materiale è molto e analisi puntuali hanno già messo in luce la precisa idea del lavoro che emerge dai numerosi interventi del Pontefice. Anche la comunicazione mediatica e il suo valore sociale sono però argomenti quasi costanti, seppur spesso sottotraccia, nei discorsi del Papa; soprattutto in quelli dedicati al lavoro.
La comunicazione pubblica di papa Francesco a questo riguardo non è solo innovativa, ma è anche metodica. Il 5 luglio scorso a Campobasso è giunto a dire: «Oggi vorrei unire la mia voce a quella di tanti lavoratori e imprenditori di questo territorio nel chiedere che possa attuarsi anche qui un “patto per il lavoro”». Quel “noi” invocato dal Papa non può essere sfuggito agli appassionati di comunicazione politica. Un “noi” che prima di essere presentato va costruito pazientemente nel tempo, intervento per intervento, soprattutto quando si tratta di incorporare due entità contrapposte dalla più consolidata narrazione del conflitto tra impresa e lavoro.
L’obiettivo pastorale di un papa non può d’altronde che essere quello di un “noi” più ampio possibile, capace di ottenere il consenso anche dell’opinione pubblica. In tema di lavoro papa Francesco non ha però percorso esclusivamente la strada della comunicazione mediata, del rapporto distanziato con la folla, ma ha privilegiato piuttosto l’incontro diretto con le realtà locali e le singole persone. I lavoratori di Cagliari, di Guidonia, delle Acciaierie di Terni, della Shelbox di Castelfiorentino… tutti incontri scanditi dall’ascolto di storie di lavoratori e imprenditori.
Una teoria e un metodo, quello di Francesco, che costituisce a tutti gli effetti una doppia lezione per i comunicatori, specialmente per quelli del lavoro, che si può così riassumere: siate testimoni diretti, promuovete una cultura e una visione etica, non perseguite un’apparente neutralità.
Quella di Bergoglio non è infatti una scelta improvvisata: come arcivescovo di Buenos Aires, nell’ottobre del 2002 aveva stilato una relazione sul ruolo del comunicatore e sul suo contributo alla società (Comunicador ¿Quién es tu prójimo?, relazione del 10 ottobre 2002) nella quale definiva la sua idea di “buona prossimità” dei media. “Solo colui che comunica mettendo in gioco la propria etica e dando testimonianza della verità è affidabile per approssimarsi bene alla realtà. La testimonianza personale del comunicatore sta alla base della sua affidabilità”.
Il comportamento del Pontefice pare quindi chiaro: egli svolge il suo compito comunicativo secondo il modello da lui stesso proposto, per una missione che è difficilmente distinguibile da quella dell’evangelizzazione stessa. Francesco non realizza quindi, come molti hanno pensato, una strumentale “distanza dal ruolo”, bensì esprime una sorta di coincidenza con esso.
Infine, contrariamente agli schemi narrativi di maggior successo in tema di lavoro, il “noi” di Francesco non ha uno scopo prevalentemente conflittuale: non esclude se non chi non è in grado di assumere una visione ulteriore dell’economia e del destino collettivo di essa. Non è un “noi” compaginato per il contrappunto con un “voi”, ma assegna piuttosto una responsabilità diretta a tutti, senza distinguere in questo tra lavoratori e imprenditori. Perché solo se “ciascuno farà la propria parte […] si potrà uscire dalla palude di una stagione economica e lavorativa faticosa e difficile” (Omelia a Santa Marta del primo maggio 2013).
È in altre parole quel “patto” ultimamente sollecitato, che esprime una visione collaborativa e partecipativa. Una prospettiva di cambiamento anch’essa quasi completamente estranea al racconto mediatico, che, ormai prevalentemente redazionale e dimentico dell’importanza della mediazione giornalistica, trova sempre meno occasioni per realizzare la “buona prossimità”.