“Non ho mai attribuito tanta importanza alla mia persona da sentire il desiderio di raccontare ad altri la storia della mia vita”, precisa Stefan Zweig all’inizio della sua autobiografia, Il mondo di ieri (di cui Newton Compton Editori ha pubblicato la versione integrale, tradotta da Silvia Montis), stesa durante il 1941 a Petrópolis, in Brasile, dove lo scrittore s’era trasferito con la moglie e assieme alla quale l’esule autore d’origine ebraica si sarebbe poi ucciso l’anno seguente. Ma perché, allora, la scelta di scrivere come ultima opera proprio un testo autobiografico? Forse desiderando egli narrare in primo luogo il destino di una generazione — la sua, appunto — che, sottolinea Zweig, “come nessun’altra nel corso della Storia è stata gravata di eventi”; o ancor meglio, “dalle incessanti scosse vulcaniche che hanno attraversato la nostra Europa”. Quali esse siano state è fin troppo noto: la cosiddetta Grande Guerra (1914-18), la scomparsa degli imperi asburgico, tedesco e zarista, l’avvento del bolscevismo, quindi del nazi-fascismo con le aberranti leggi razziali, infine il secondo conflitto mondiale.
Nato nel 1881, a Vienna — la città cosmopolita dei celebri caffè, della cultura e della musica; dove per strada potevi imbatterti in Freud, Hofmannsthal, Mahler o Richard Strauss — Zweig conosce l’ultimo periodo di quella che venne non a caso chiamata Austria felix: una grande monarchia retta paternalisticamente per oltre mezzo secolo dal vecchio (ed amatissimo) sovrano Francesco Giuseppe. “Ogni cosa, in questo enorme impero, stava ferma e immutabile al suo posto”, osserva con una punta di nostalgico disincanto l’autore, ricordando come allora si tenesse per certo che “nulla in quest’ordine calcolato sin nei minimi dettagli, sarebbe mai cambiato”. Eppure il 28 giugno 1914 uno sparo, echeggiato a Sarajevo — dove un attentatore uccide l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico — sveglierà Vienna dal suo sonnolento torpore, distruggendo nel corso d’un lustro “il mondo della sicurezza e della ragione” che sin troppi, da troppo tempo, s’erano illusi di abitare.
Eppure, a guerra finita, per molti le speranze nell’umano progresso ben presto rifioriranno. Di conseguenza, confessa lo scrittore austriaco, “noi che eravamo giovani, ci dicevamo l’un l’altro: sarà il nostro mondo, quello che abbiamo sognato, un mondo più umano, un mondo migliore”. In effetti, dopo la conclusione di un conflitto così devastante che comportò circa sedici milioni di vittime, tra militari e civili, come non auspicare un futuro migliore? L’ottimista ed estroverso Zweig, che già nel primo decennio del nuovo secolo aveva compiuto numerosi viaggi in tutta Europa, si trasferisce quindi prima a Zurigo — dove conosce personaggi come Hermann Hesse, James Joyce, Ferruccio Busoni e Romain Rolland — poi a Salisburgo, dove sposa la prima moglie. Seguirà un periodo di grandi successi editoriali; saranno infatti pubblicati: Lettera di una sconosciuta, Amok, Gli occhi dell’eterno fratello (1922), Paura (1925), Momenti fatali e Sovvertimento dei sensi (1927), Mendel dei libri (1929), alcuni dei quali giungono a vendere sino alle 250mila copie. Ormai il nostro è uno degli scrittori di lingua tedesca più apprezzati. Ma con l’irresistibile ascesa al potere in Germania di Hitler, la sua fortuna precipita.
Nel 1933 i libri di Zweig — messo all’indice dal regime alla pari di tanti altri intellettuali ebrei del calibro di Thomas Mann, Franz Werfel, Sigmund Freud e Alfred Einstein — finiscono al rogo. “La mia opera letteraria” — possiamo leggere ne Il mondo di ieri — “è stata ridotta in cenere proprio in quello stesso paese in cui i miei libri si erano conquistati milioni di lettori”. Conseguenza di tanta ostilità: la scelta da parte dello scrittore di trasferirsi a Londra, dove, giusto una settimana dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale egli, divorziato da poco, sposerà in seconde nozze la fedele segretaria Lotte. Ma non avranno ancora fine le peregrinazioni di questo apolide ebreo errante. Dopo essersi lasciati alle spalle l’Europa in fiamme per approdare a New York, città in cui vivranno solo per un breve periodo, i due coniugi nel 1941 decidono di recarsi in Brasile: ultima tappa d’un esilio vissuto in modo sempre più sofferto. Laggiù Zweig prenderà a stendere la sua autobiografia: vero e proprio lascito letterario, destinato a terminare con le splendide pagine conclusive intorno alla fatale estate 1939: meteorologicamente pacifica e “di un incanto eccezionale”. Tuttavia in quel settembre scoppierà un’altra, ancor più feroce guerra mondiale.
“Il sole splendeva forte e intenso”, nota lo scrittore nelle ultime righe del libro — che verrà pubblicato postumo a Stoccolma nel 1944 —, ricordando l’agosto londinese di due anni prima. “Mentre m’incamminavo verso casa, notai d’un tratto la mia ombra che si allungava davanti a me (…). E da allora quest’ombra non mi ha mai abbandonato, sovrastando i miei pensieri giorno e notte (…). Ma dopotutto ogni ombra è figlia della luce, e solo chi ha conosciuto luce e tenebra, guerra e pace, salite e crolli, può dire di aver davvero vissuto”.