E un’altra volta siamo quasi al via, manca poco all’esame di stato. Bello, brutto? Buono, cattivo? Da tenere, da buttare, da cambiare? Ricominceremo a dibatterne appena sarà finito, adesso importa affrontarlo bene. E bene vuol dire in primo luogo compiere anche in questa occasione un coraggioso atto di fiducia, mancando il quale gran parte della nostra vita risulta un cumulo di circostanze scombinate e difettose, un tradimento ai nostri danni. Fiducia, invece, fiducia che qualche cosa si può imparare, qualcosa di buono si può vivere, dentro e intorno all’esame di maturità così com’è.
Facciamo dunque un veloce ripasso di alcuni punti da non dimenticare relativamente a tre momenti: prima prova, argomento a scelta, colloquio nel suo complesso. Nessuna pretesa di esaustività, nessuna pretesa di dire cose nuove, che gli insegnanti non abbiano già detto nel lungo percorso di allenamento; solo un mettere in fila, un umile promemoria dell’ultimo minuto.
Per dargli una forma, facciamoci aiutare dalla retorica classica e dalle sue cinque parti: inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio. Basta rifletterci un attimo per capire che dovremo usarle tutte, ed avremo anche la soddisfazione di avvalerci di un modello non nato per la scuola ma per “fare”: per fare l’avvocato, nello specifico.
Inventio: trovare le idee opportune nella circostanza. E che altro si deve fare all’esame? Ci si deve giustappunto porre idealmente di fronte a tutte le idee (informazioni e concetti), poche o tante che siano, che il percorso di studio ci ha lasciato in eredità, valutarle criticamente e vagliarle per trovare quelle che si attagliano alla circostanza. Un nota bene è importante: nessuno di noi sa tutto. Sapere molto è certamente un bene, comunque il momento dell’esame non è quello in cui farsi spaventare dai sensi di colpa o dai complessi. Non ci si deve confrontare con tutto ciò che lo studente ideale dovrebbe sapere: più realisticamente si deve usare quello che si ha, ma farlo con criterio.
Un esempio per capirci: non è il caso di escludere una traccia solo perché l’argomento non è stato affrontato in classe: si cerca nel proprio bagaglio personale quello (e sicuramente c’è) che ci serve per avviare una riflessione pertinente. Non serve a niente, insomma, un atteggiamento pauroso delle proprie lacune o imperfezioni: serve un atteggiamento agonistico; le tracce da escludere a priori o le domande a cui far seguire silenzi imbarazzati saranno certamente molte di meno. Questa prima parola, dunque, inventio, trovare le idee, riguarda sia la prima prova sia il colloquio; sia, va da sé, l’argomento a scelta, qualora giaccia ancora in una fase un po’ informe.
Dispositio: distribuire le idee secondo un ordine. E l’ordine può essere di due tipi: strategico (mirante ad ottenere un certo effetto); o semplicemente logico, tale da rispecchiare una visione chiara e gerarchizzata dei concetti e delle informazioni e da produrre un’esposizione corretta. Quest’ultimo tipo di ordine, magari meno eccitante del primo ma non meno meritorio, caratterizza appunto tutti i momenti essenzialmente espositivi: le risposte alle domande dell’analisi del testo, lo svolgimento del tema di storia nella sua forma classica, le risposte alle domande del colloquio. Il primo tipo di ordine, invece, quello in cui alla chiarezza e alla correttezza dei collegamenti si aggiunge una strategia comunicativa che punta all’efficacia, a mettere in risalto e rendere convincente una tesi, caratterizza i testi, orali o scritti, di tipo argomentativo: i saggi, ma anche, in qualche caso, l’approfondimento che segue l’analisi del testo, il tema di ordine generale, naturalmente, e soprattutto l’argomento a scelta.
Qui, infatti, su un argomento che è stato individuato e predisposto in piena autonomia, senza limiti di tempo e di fonti, non riuscire ad essere efficaci è effettivamente un peccato. Prima di tutto c’è una questione di tempi: i minuti a disposizione per convincere la commissione che in proposito non si è dormito o giocato (per parafrasare Machiavelli) non sono molti. Se si dispone in apertura una lunga serie di informazioni generali (per dire, promettendo di approfondire Liolà, una sintesi sulla vita di Pirandello e le altre sue opere), è probabile che una commissione sbadigliante interrompa l’oratore prima ancora che sia entrato nel merito. Le cose più importanti e originali, dunque, vengono per prime, il resto poi, se c’è tempo o a richiesta.
Ma diciamoci la verità: perché cominciare ad esporre un argomento a scelta con una noiosa sintesi dei manuali? E’ proprio vero che in quest’ordine, apparentemente bislacco, non c’è mai una strategia? C’è, talvolta c’è: è la strategia di chi non ha avuto voglia di pensare niente, di domandarsi niente, e tira in lungo per riempire il buco. Perché correre il rischio di essere arruolati in questa categoria, magari per eccesso di zelo? Con decisione, si mette avanti la domanda che ha condotto a scegliere un certo tema, poi le conclusioni cui si è giunti; infine, si illustrano le fonti e si spiega come hanno portato a formulare la tesi. Le fonti e i documenti non si vendono a peso: non è importante averne moltissimi, anzi, ciò può essere dannoso: magari sono molti ma nessuno davvero decisivo; magari sono molti ma dimostrano solo la diffusione di un tema, senza collegamenti convincenti tra loro.
L’illustrazione di tutte le ricorrenze di un tema potrebbe essere un lavoro di valore, specie in ambito umanistico, ma è senz’altro sproporzionato alla bisogna. E così, qualunque elenco di documenti la cui scelta non sia adeguatamente avallata da esigenze argomentative si espone all’obiezione: “Perché questi e non quelli? Perché solo questi e non uno di più? Perché tutti questi e non uno di meno?”. Col che comprendiamo anche un altro motivo per cui la dispositio viene per seconda, dopo l’inventio: perché non deve solo ordinarne i risultati, ma anche vagliarli e selezionarli spietatamente.
Elocutio: ora che so che cosa dire e in che ordine, come lo dico, ovvero lingua e stile. Il primo requisito, ovvio ma non scontato, è la correttezza, ortografica, grammaticale, sintattica: c’è poco da fare, qualunque tentativo di abbellimento o di innalzamento dello stile apparirà patetico se si inciampa malamente su accenti, relativi e anacoluti. Per una volta vale la pena di essere guardinghi e ipercritici: meglio spezzare un periodo che non ci convince fino in fondo, meglio controllare sul vocabolario una grafia, meglio fare l’analisi logica o del periodo, là dove la struttura appare poco chiara e ci si trova a maneggiare utensili pericolosi (relativi e cambiamenti di soggetto, in prima linea). E poi, il lessico. La regola aurea è una sola: il lessico deve essere preciso. Meglio una ripetizione che un’imprecisione; meglio un termine usuale ma esatto che uno più solenne e vago. Il termine esatto non è mai basso: pensiamo all’anguilla di Montale!
E visto che abbiamo messo in campo il basso e l’alto, ovvero quelle che vengono definite le scelte di registro, tratteniamoci un po’ nei loro paraggi. L’esame è, per sua natura, un momento formale. Questo già orienta le scelte, sia nello scritto, sia nell’esposizione orale. E’ bene ricordarlo: l’elocutio riguarda anche l’esposizione orale, anzi, ne è una parte integrante. Ma torniamo alle scelte di registro. Parlare/scrivere pomposamente o secondo un registro colloquiale, quotidiano? Né l’uno né l’altro. La strada maestra rimane quella dell’esattezza, generalmente tradita da entrambi. Vietato, pertanto, indulgere al linguaggio ampolloso (che finisce per lo più per cadere nell’antilingua burocratica di cui parlava Calvino), vietato anche alleggerire con spiritosaggini o giovanilismi: anche in questo caso si tradisce l’esattezza con semplificazioni banalizzanti. Per riassumere: perseguendo l’esattezza ci rivolgiamo in modo naturale al lessico colto, cioè al lessico pertinente ai diversi argomenti e alle diverse discipline; con ciò il registro adeguato è assicurato: si potrà essere semplici, ma non si sarà né pomposi né banali.
Memoria: nell’antichità l’orazione scritta, come si sa, doveva essere mandata a memoria, perché il suo destino non era quello di essere letta, ma detta, dal suo autore o da qualcun altro. Oggi l’apprendimento a memoria non gode di grande fortuna, ma forse non bisogna dispiacersi del fatto che l’esame, alla fine, richieda di mandare a memoria molte informazioni. Certo, vale quanto si è detto prima, le informazioni devono essere recuperate con agilità, senza servilismo, con spirito critico … è probabile che ciò ci riesca solo con una parte di esse, non con tutte. E le altre? Fatica sprecata? Non è detto: sono dentro di noi, lavorano anche se non ci pensiamo, percorrono le loro strade, incontrano compagni di viaggio. Chi può dire che cosa ne risulterà in futuro, quando saremo in parte altri uomini da quel che siamo?
In ogni caso, l’esame prevede un momento in cui esercitare la memoria esattamente come la intendevano gli antichi, ed è, ancora una volta, l’argomento a scelta del candidato. E’ bene ricordare (si sa, ma non sempre ci si pensa) che quel materiale, anche qualora sia stato completamente scritto, è destinato ad essere detto, non letto. Quante volte capita di avere tra le mani un fascicolo promettente che non trova adeguato riscontro nell’esposizione del candidato! La delusione, dannosa per il candidato medesimo, è maggiore quanto maggiori erano le promesse. E l’esposizione di un contenuto articolato e sottoposto a vincoli di tempo non si improvvisa, meglio non illudersi: basta provare una volta a ripetere ad altri qualcosa che pure si riteneva di avere capito bene per comprendere come è facile diventare confusi, frammentari, imprecisi! Esercizio, dunque, esercizio, e meglio se non da soli! Esercitarsi ad esporre ad altri, in una situazione nuova!
E così approdiamo, seppur molto brevemente, all’ultima parola che prendiamo in prestito alla retorica antica.
Actio. Con questo termine si indicava il complesso degli atteggiamenti e dei gesti consigliati all’oratore in rapporto alle diverse circostanze. In effetti, l’ora del colloquio d’esame, articolata in più momenti, con numerosi interlocutori, mette alla prova anche questo aspetto. Solo qualche rilievo, inteso anche a sdrammatizzare. Un atteggiamento aperto e disponibile è in realtà tutto ciò che occorre. L’estroverso che tende a strafare farà bene a limare gli eccessi, il timido dovrà, soprattutto, evitare di parlare a voce bassissima con i singoli commissari o di avere l’espressione dell’innocente condotto al macello da crudeli aguzzini. I caratteri tutti diversi sono una grande ricchezza e abbelliscono la vita: l’importante è permettere agli altri di apprezzarli, con spontaneità, senza ostentazioni e senza chiusure. Si può essere più pronti e sicuri o più incerti e pensosi; si può anche essere un po’ intimoriti ed emozionati: rispetto per gli altri e serietà emergono comunque, ed è quello che conta.