«E tu a chi appartieni?»: nelle diverse flessioni dei nostri dialetti, fino a poco tempo fa non era difficile, soprattutto nella provincia meridionale, sentire rivolgere questa domanda per sapere come uno facesse di cognome, di quale famiglia fosse membro, che rapporti di parentela avesse, che posizione nel contesto sociale ricoprisse, e così via. Insomma tutto il mondo di una persona sospeso al filo della sua appartenenza e attraversato da esso.
Quello dell’appartenenza è un problema che – almeno a livello psicologico e sociale – è visto oggi come un residuo. In primo luogo il residuo di una personalità non ancora compiutamente emancipata o criticamente matura, che si attardi in maniera quasi patologica a concepire se stessa a partire dal rapporto con la sua origine, e quindi ancora in qualche modo “dipendente” da altro. Non che i legami di filiazione e di appartenenza ad un ceppo familiare, ad una terra, ad una storia, ad una cultura siano negati – e come potrebbero esserlo? –, ma essi vengono appunto ricondotti a una matrice psicologica o antropologico-culturale, a un deposito simbolico, a una preistoria emotiva. Né si può dimenticare la diffusa messa in discussione delle appartenenze ideologiche e delle identità religiose e politiche, che sembra abbiano lasciato come conseguenza più diffusa, anche solo nell’immaginario collettivo, che appartenere ad una storia, ad una comunità, ad un gruppo sociale è sicuramente un bene ed un passaggio inevitabile per il singolo, ma ultimamente impossibile a durare come costitutivo della propria conoscenza e della propria azione nel mondo, poiché prima o poi l’appartenenza va pagata al prezzo della libertà e dell’auto-determinazione, e se resta avrà la materia del “sogno” o dell’utopia. Un ideale, certo, ma staccato dalla realtà.
Per un altro verso, tuttavia, l’appartenenza è addirittura tornata ad occupare la scena culturale del nostro tempo, intesa proprio come il grumo affettivo o ideologico rimosso – e quindi irrisolto – di molte storie individuali, troppo affrettatamente illuse di potersi auto-determinare liberandosi dai rapporti con la propria origine e la propria storia. Oppure essa ritorna come una specie di correttivo sentimentale rispetto ad una razionalità calcolante e impersonale che sembra omologare tutto quello che tratta. Insomma, un disagio profondo che chiede di essere sempre nuovamente attraversato o una tendenza culturale (e in molti casi finanche alla moda) nel segno di un ritorno alle proprie radici o di un gusto per le tracce e i valori etnici di ogni cultura.
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Se da un lato, dunque, quello dell’appartenenza si presenta nella nostra cultura come un fenomeno “residuale”, dall’altro lato esso non giunge mai ad esaurimento, ma resta come un problema aperto o un richiamo sempre ritornante. In altri termini, come un residuo irrisolto e irrisolvibile: e lo si vede soprattutto per il fatto che l’appartenenza è per così dire inchiodata ad un vocabolario che ne definisce pregiudizialmente – se non ideologicamente – i connotati e i confini. “Appartenenza” dice infatti “identità”, intesa quest’ultima come un fenomeno storico-culturale determinato in un dato contesto spazio-temporale, in cui si sviluppa una certa visione di sé e del mondo, con alcuni precisi valori e altrettanto precise pratiche e costumi. In una parola, se appartenere a qualcosa significa avere un’identità, avere un’identità significa entrare nel campo del “relativo” – nel senso che essa va concepita sempre e solo relativamente ad un certo mondo o sistema di riferimento, e questo – come molti antropologi si affrettano a precisare – anche, e forse soprattutto, qualora un’identità particolare concepisca se stessa come universale o naturale o comune.
Si noti comunque che nel lessico del discorso pubblico il concetto di “identità” è quasi per definizione un concetto “relativistico”, come se l’esser-relativo costituisse un attributo intrinseco del fenomeno identitario. In fondo, ci troviamo qui di fronte alle estreme e più coerenti conseguenze del lavoro critico sviluppato in buona parte del cosiddetto pensiero “moderno”, impegnato a decostruire la pretesa tipica delle identità storiche a porsi come punti di vista universali, affinché, attraverso la relativizzazione dei loro fondamenti storico-culturali (soprattutto religiosi), si potesse giungere a costruire un altro tipo di universalità, non più fondata su identità già presenti o accadute nel corso della storia, ma auto-certificata come un modello o una matrice puramente razionale, come una pura natura comune a tutti gli uomini.
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Senza neanche tentare in questa sede di ricostruire lo sviluppo storico del problema, mi limito a sottolineare soltanto che a partire dal Seicento – da quando cioè esplode in Europa il problema delle guerre di religione – le identità storiche e le appartenenze religiose vengono progressivamente pensate come fenomeni particolari e necessariamente parziali (ciascuna però con una pretesa di totalità, e quindi inevitabilmente in conflitto con le altre), di contro a una “natura umana” pensata come comune a tutti, ma non in quanto ritrovata attraverso esperienze di fatto, bensì in quanto stabilita per così dire a priori dalla stessa legge naturale. Un puro meccanismo che fa a meno della storia, con la funzione di costituire una regola suprema di ciò che accade storicamente, sebbene alla fine questo si riveli come un’astrazione o un puro esperimento mentale, giacché la natura umana non esiste mai in sé e per sé, ma si dà sempre concretamente in esperienze storiche determinate.
Piuttosto bisogna osservare – ma tornerò più avanti su questo punto – che ogni esperienza storica, ogni determinata identità è l’unico modo che noi abbiamo per scoprire dei fattori comuni e universali della nostra natura, senza che le due cose siano in contraddizione tra loro. E invece da un certo momento in poi le cose cominciano inesorabilmente a divaricarsi: la natura comune o universale diviene il metro di misura di ogni esperienza particolare, e viceversa ogni identità storica particolare, ogni determinata appartenenza viene vista in qualche modo come una limitazione o parzializzazione di una neutra norma antropologica.
Il passaggio dal “relativo” delle identità storiche all’“assoluto” della legislazione razionale aveva come obiettivo principale niente di meno che salvaguardare la pace sociale tra le diverse parti politico-religiose, attraverso una precisa strategia della tolleranza che, da un lato, si appellasse alla ragione umana, intesa come il criterio supremo dell’universalizzazione dei comportamenti e delle norme, come collante della convivenza sociale; dall’altro escludesse che una pretesa di verità possa in qualche modo sottrarsi alla regola del potere statale.
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Prendiamo il caso di Locke (1632-1704), il quale nei Saggi sulla legge di natura del 1664 sostiene che gli uomini sono capaci per natura – cioè esclusivamente in base all’esercizio della loro ragione – di giungere alle verità fondamentali dell’etica, della politica e della religione. Di conseguenza la legge naturale presente in ogni uomo non va intesa come ispirata da Dio (come dicevano i puritani dell’epoca), ma come originaria verità razionale, conoscibile solo grazie all’«uso appropriato» delle facoltà naturali. Se non si accettasse questo argomento, verrebbe meno qualsiasi terreno comune su cui fondare una convivenza pacifica tra gli uomini, vale a dire non sarebbe possibile la tolleranza, specie in materia religiosa.
Ma con ciò il problema è molto meno risolto di quanto si potrebbe credere. Se non altro, resta aperta la questione di come la legge di natura possa dettare o divenire una norma civile. Anzitutto, come afferma esplicitamente lo stesso Locke, la legge di natura non è qualcosa di innato in noi (come attesterebbe il fatto che non si trova mai un accordo unanime nello stabilire in cosa essa consista), né ci viene trasmessa per mera tradizione (perché a ben vedere vi sono comunità e culture diverse che assumono come legge di natura principi spesso radicalmente diversi tra loro). Bisognerà dunque che tale legge venga appresa per conoscenza – ossia per esperienza –, e ad essa si dovrà accedere mediante le facoltà della mente umana (cioè nel senso e nella ragione, le due facoltà che strutturano appunto l’esperienza). Non è un caso che, nell’introdurre il suo Saggio sull’intelletto umano (1690), Locke dichiara che l’opera era nata in realtà da una discussione tra cinque o sei amici intorno allo scottante tema della pacificazione politica tra le diverse confessioni religiose all’epoca presenti sul territorio inglese, solo che essi «ben presto si trovarono ad un punto morto per le difficoltà che sorsero da ogni parte». E continua: «Dopo esserci affaticati per qualche tempo, senza avere fatto un passo avanti nella soluzione dei dubbi che ci imbarazzavano, mi venne fatto di pensare che eravamo su una strada sbagliata e che, prima di impegnarci in ricerche di quel genere, era necessario esaminare le nostre stesse capacità, e vedere quali oggetti siano alla portata della nostra intelligenza, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione» (dall’Epistola al lettore).
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Senza entrare qui nel merito della gnoseologia lockeana, basti ricordare che essa contempla non solo la possibilità di una «conoscenza certa» (knowledge), tanto evidente quanto limitata alle idee ricavate direttamente dall’esperienza (cioè sensazione e riflessione), quindi di per sé ancora incapace di orientare le nostre decisioni e con ciò condurre la nostra vita, ma anche una «conoscenza probabile» (judgment), che riguarda cose di cui non abbiamo direttamente una conoscenza certa, ma a cui diamo il nostro assenso indirettamente, o perché ne rileviamo l’accordo con la nostra esperienza, oppure perché ci basiamo sulla testimonianza credibile di altri uomini (e cioè per fede).
Il giudizio, dunque, può essere dato come assenso razionale, ma anche come assenso per fede (la fede infatti, secondo Locke, deve sempre poter esibire le sue buone ragioni, e quindi non va mai contrapposta alla razionalità). Dal giudizio esulano invece le cose che risultano «incompatibili o inconciliabili» con le nostre conoscenze razionali (certe o probabili che siano), e che si presentano come oggetto di un fideismo fanatico o di un «entusiasmo» misticheggiante, in quanto presumono di basarsi su una rivelazione che possa fare a meno della ragione. E mentre la vera rivelazione divina per Locke ha come suoi segni certi la ragione e la Scrittura, il fanatismo ha come segno la spada da impugnare per sconfiggere in nemici della propria confessione.
Per assicurare una reale situazione di tolleranza, dunque, la legge naturale non basta e la stessa evidenza della conoscenza razionale è sempre in pericolo di essere sopraffatta dal fanatismo irrazionale. Per questo, nel momento in cui l’interesse religioso degli uomini (con i suoi rituali, le sue credenze e i suoi costumi) entrasse in conflitto con l’interesse civile, è il potere civile che è chiamato a risolvere il conflitto e ad assicurare la convivenza pacifica nella società. Il magistrato infatti, secondo Locke, ha sempre il diritto di intervenire nelle cose che riguardano il bene pubblico, e dunque anche in quelle di religione, laddove esse lo contraddicano.
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Ad esempio, se una confessione religiosa, come il cattolicesimo, dà ai suoi membri la possibilità di cacciare dal trono un re scomunicato, e quindi in definitiva non riconosce lo Stato come ultima istanza della vita civile (giacché i “papisti” sono obbedienti al Papa prima che al re), essa va perseguitata; come pure va perseguitato l’Islam per il fatto che non separa il potere spirituale da quello temporale e infine vanno perseguitati gli atei, i quali negando che vi sia un Dio impediscono di pensare i legami sociali come qualcosa di sacro e inviolabile (cfr. la Lettera sulla tolleranza, del 1689).
Sembrerebbero problemi e contesti assai lontani dalle questioni che agitano il nostro presente, e tuttavia, a ben guardare, in essi si trova come la chiave per aprire e comprendere nei suoi presupposti di fondo le stesse discussioni che occupano la cultura contemporanea. E ancor più in essi possiamo rintracciare le matrici di tutta una problematica educativa che oggi sembra in affanno rispetto alle questioni legate al conflitto o alla coesistenza pacifica delle identità, presa com’è nel dilemma tra il modello multiculturalista e il modello integrazionista, cioè tra una mera coesistenza orizzontale di identità in sé chiuse, incommensurabili ed impermeabili e l’organizzazione dei loro rapporti in senso verticalizzato, e cioè tramite la loro simultanea riduzione ad alcuni denominatori comuni decisi dall’esterno. Vediamo.
(Primo di tre articoli)