Da tempo ormai si attende l’attuazione del nuovo Regolamento sulla Formazione iniziale degli insegnanti per la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo e secondo grado, che ridisegna l’iter per conseguire l’abilitazione all’insegnamento dopo la chiusura delle SSIS nel 2007.
Tale percorso, come è ormai noto, prevede per l’abilitazione all’insegnamento alla scuola dell’infanzia e primaria la laurea magistrale a ciclo unico in Scienze della Formazione primaria, mentre per la scuola secondaria bienni magistrali ad hoc per ogni classe di concorso e un anno di Tirocinio Formativo Attivo (TFA), durante il quale, alle 475 ore di tirocinio da svolgere in una scuola sotto la guida di un insegnante tutor, si affiancano corsi e laboratori pedagogico-didattici da istituire presso una sede universitaria. La situazione, a regolamento approvato e attuazione imminente, si rivela però assai più complessa e problematica di quanto ci si aspettava. Ce ne parla Francesco Magni, presidente del CLDS (Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio).
Oggi è comparso un documento firmato CLDS sul tema della Formazione degli insegnanti. Quali novità ci sono all’orizzonte? E quali le preoccupazioni che vi hanno portato a scriverlo?
La novità è semplice e preoccupante: la tanto attesa partenza del TFA transitorio, data per imminente (novembre di quest’anno), e che dovrebbe fare da battistrada all’avvio dei nuovi percorsi formativi (i bienni specialistici e l’anno di TFA in sostituzione delle SSIS), rischia di tradursi, come diciamo nel documento, in una «tragica farsa senza attori». Le prime stime sul fabbisogno di insegnanti per i prossimi tre anni scolastici infatti, da poco comunicate agli uffici scolastici regionali e alle università, presentano numeri che lasciano attoniti, nell’ordine di poche manciate di persone anche per le classi di concorso più grandi.
Ci fornisca degli esempi.
Nel documento citiamo il caso delle classi di concorso legate a Lettere per la scuola secondaria di secondo grado, per le quali il fabbisogno in Lombardia è per tutte 0 per il prossimo anno scolastico e qualche unità comincia a contarsi solo nel 2015. E non è l’unico caso. La sostanza, come diciamo nel volantino, è che il nuovo e agognato percorso abilitativo viene chiuso «con un enorme lucchetto» per dieci anni.
Ci si aspettava numeri bassi, ma come è possibile che siano tanto esigui, addirittura nulli?
Al fabbisogno reale è stato sottratto il numero di insegnanti precari, ossia di tutti quegli abilitati inseriti nelle graduatorie ad esaurimento, che sono attualmente circa 230 mila. La scelta del governo (sia essa convinta o subita) è chiara, e a nostro avviso assai poco lungimirante: limitare al minimo, se non addirittura in certi casi annullare, gli ingressi al nuovo percorso abilitante, finché non verranno riassorbiti tutti i precari in graduatoria. Il tempo che occorre per questo processo è stimato dagli uffici ministeriali della durata di sette anni. Per i prossimi sette anni dunque pochissimi ingressi, nell’ordine di poche decine in tutta Italia per classe di concorso. «Zero tituli» insomma, come si dice nel documento. E presumibilmente fino al 2018.
Perché questa decisione tanto drastica? E che conseguenze può portare?
Questa scelta, è inutile nasconderlo, soddisfa pienamente le richieste dei sindacati e privilegia i “diritti acquisiti” a danno delle aspirazioni dei giovani, sia di quelli che attualmente frequentano un corso di laurea che ha tra i suoi sbocchi l’insegnamento, sia anche di quei neolaureati che, usciti dall’università dopo il 2007 (anno di chiusura delle SSIS), non hanno potuto conseguire l’abilitazione, ma sono a tutti gli effetti entrati nel mondo della scuola, e magari insegnano da tre o quattro anni tramite supplenze annuali o contratti nelle scuole paritarie. La loro prospettiva è drasticamente bloccata. Sono di fatto il «capro espiatorio» della situazione anomala, per non dire “mostruosa”, di sovraffollamento di precari che si è venuta a creare nel nostro Paese.
Che cosa chiedete dunque nel volantino?
Pur non avendo niente da obiettare sulle legittime aspettative degli abilitati precari, non possiamo certo condividere che il prezzo di questa annosa situazione lo debbano pagare unicamente i giovani, che peraltro rappresenterebbero per la scuola forze nuove. Impedire il loro ingresso significa, come abbiamo scritto, «uccidere il futuro» del nostro Paese, oltre che mortificare la professione insegnante in generale, che avrebbe invece bisogno di un rilancio, che giovani «motivati, preparati, desiderosi di costruire, disposti anche a tutti i sacrifici necessari in questo tempo di crisi» potrebbero certo concretizzare. La direzione intrapresa dal Ministero deve a nostro avviso essere corretta: è necessario ricominciare ad abilitare, svincolandosi da un fabbisogno calcolato con criteri quanto meno parziali.
Come è possibile continuare ad abilitare se un così grande numero di precari attende di entrare in ruolo? Non si rischia che questi giovani aspiranti insegnanti vadano ad affollare ulteriormente la moltitudine dei precari?
Occorre innanzitutto confermare e applicare ciò che la legge già prevede, ossia lo sganciamento dell’abilitazione dal reclutamento e dall’immissione in ruolo: conseguire l’abilitazione non significa infatti entrare di ruolo, i due momenti sono separati. Ciò consente di fatto di abilitare con margini più ampi e non rigidamente legati al numero di posti di ruolo disponibili. Gli abilitati potrebbero andare a confluire in “albi regionali”, senza formazione di ulteriori graduatorie, dai quali le scuole potrebbero attingere tramite propri concorsi di istituto o di reti di istituti. Insomma, urge mettere mano a una vera e propria riforma del reclutamento, senza tornare agli automatismi del passato e riservando dei posti anche per i nuovi abilitati, i quali però è inaccettabile che siano solo poche decine per classe di concorso all’anno.