Il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza ha autorizzato la sperimentazione del liceo di 4 anni a partire dall’anno scolastico 2014-2015. La sperimentazione ha rilanciato il dibattito sull’opportunità di ridurre da 13 a 12 gli anni di studio necessari per l’accesso all’università. Leggi qui il primo e il secondo articolo di Giuseppe Bertagna.
3. Le scelte dalla legge Moratti (2003-2006) delle successive norme Fioroni-Gelmini (2007-2010) – Il risultato finale di queste laboriose mediazioni fu l’approvazione a maggioranza, in Parlamento, dopo un anno di dibattiti accesi, della legge delega 28 marzo 2003 n. 53. La legge delega accolse molte proposte contenute nel progetto presentato dal Grl e dal ministro Moratti agli Stati generali del 2001, ma, al contempo, modificò in parti sostanziali la fisionomia e l’architettura dell’ipotesi iniziale.
Scomparve, ad esempio, il credito formativo per la frequenza del triennio della scuola dell’infanzia che avrebbe permesso di inserire questo grado scolastico tra quelli comunque coinvolti nel diritto dovere di istruzione e formazione fino a 18 anni e, quindi, tra quelli ai quali la Repubblica era obbligata a garantire risorse crescenti, oltre che pari dignità ordinamentale con i gradi successivi.
I percorsi di “istruzione” statali, denominati, come nella legge Berlinguer n. 30/2000, licei, tornarono tutti quinquennali, mentre i percorsi di “istruzione e formazione professionale” affidati dalla Costituzione alle Regioni, nonostante la dichiarazione di principio sposata dalla legge sulla pari dignità di tutta l’offerta formativa del secondo ciclo di istruzione e formazione, restarono quadriennali per il diploma e triennali per la qualifica (anche se con la possibilità di organizzare, in collaborazione con le scuole statali, un anno aggiuntivo valido per l’accesso all’esame di Stato).
L’unitaria campitura 14-22/24 anni per lo sviluppo dei percorsi dell'”istruzione e formazione professionale” secondaria e superiore affidata alle Regioni, prevista parallela a quella dei percorsi secondari e universitari di “istruzione”, fu eufemisticamente attenuata e, soprattutto, ricondotta, nel segmento superiore, al tradizionale centralismo ministeriale.
In compenso, al fine di potenziare il sistema dell'”istruzione e formazione professionale” delle Regioni legato alle dinamiche economiche dei territori e del paese, la legge delega e il successivo d.lgs. n. 226/05 accettarono il principio del passaggio di tutta l’istruzione professionale statale e della parte più specificamente professionalizzante dell’istruzione tecnica alle Regioni, mantenendo in capo allo Stato solo i percorsi liceali anche economici e tecnologici che avrebbero dovuto completare in università o comunque nell’istruzione professionale superiore le dimensioni della professionalità specifica.
La normativa emanata dopo il 2006 è poi ulteriormente intervenuta a limare i residui più innovativi contenuti nelle legge n. 53/03 e nei suoi decreti attuativi, per non dire a restaurare la situazione che esisteva prima della sua stessa approvazione.
Infatti, con il ministero Fioroni si è anzitutto reintegrata la permanenza, nel secondo ciclo di istruzione, della suddivisione tra licei, istituti tecnici e istituti professionali statali (art. 13 della legge 2 aprile 2007, n. 40). Si sono, in pratica, confermate le tre tradizionali filiere formative tra loro separate e gerarchizzate a livello di immagine culturale, di pratica sociale e di funzioni professionali (cosicché gli studenti valutati “ottimi” dalla scuola media si continuano ad iscrivere ai licei, immaginando, o illudendosi, di dover diventare classe dirigente del paese; quelli con “distinto” agli istituti tecnici per aspirare a diventare almeno quadri direttivi, mentre i “sufficienti” sono per lo più indirizzati da docenti e famiglie agli istituti professionali per poter svolgere prestazioni impiegatizie e operaie qualificate).
In secondo luogo, dopo aver riallontanato il “sistema di istruzione” quinquennale da quello dell'”istruzione e formazione professionale” regionale, triennale per le qualifiche e quadriennale per diplomi, la normativa successiva al 2006 ha in sostanza sancito la residualità di quest’ultimo e, quindi, anche la sua, di fatto, impari dignità educativa, culturale e sociale rispetto ai licei, agli istituti tecnici e, perfino, agli istituti professionali dell'”istruzione” statale. Infatti, al di là di volenterose dichiarazioni di segno contrario, l’ha destinato agli studenti che, per apparente inettitudine propria, non riuscirebbero a seguire con profitto nessuno dei tre percorsi “scolastici” del sistema di istruzione o che, per condizioni familiari, ambientali e socio-economiche sfavorevoli, non sono nelle condizioni di impegnarsi nella frequenza di corsi quinquennali invece che più brevi e capaci di garantire un immediato inserimento attivo nel mondo del lavoro.
Anche la possibilità “concessa” alle Regioni (Dpr. 87/2010, in base all’art. 13, 1 quinques della legge 40/07) di chiedere agli istituti tecnici e professionali statali, grazie agli spazi di flessibilità garantiti dall’autonomia delle scuole, di istituire, all’interno dei loro percorsi quinquennali, corsi triennali e quadriennali di qualifica e diplomi professionali, ha avuto più il significato e l’effetto programmatico di deprimere ulteriormente, fino a squalificarlo, il “sistema di istruzione e formazione professionale” regionale che altro. Molte Regioni, infatti, deresponsabilizzandosi, hanno preferito “appaltare” del tutto la loro “istruzione formazione professionale” fino ai 18 anni alle scuole statali, mentre Regioni ad esempio come Lombardia, Veneto e Friuli che, sulla base della legge n. 53/03, si sono impegnate nella costruzione di un sistema graduale e continuo di istruzione e formazione professionale, sono state fortemente penalizzate dallo Stato nei finanziamenti (lo Stato preferisce sostenere i propri istituti professionali) e non riescono, in questo modo, a soddisfare la crescente domanda di giovani e famiglie per questa loro apprezzata offerta formativa (in Lombardia, ad esempio, siamo al 18% dei giovani che la frequentano, percentuale, però, che potrebbe perfino raddoppiare se ci fossero le risorse per ampliarla!).
Queste reintegrate qualificazioni di minorità e di separatezza attribuite al sistema di “istruzione e formazione professionale” delle Regioni rispetto a quello di “istruzione” statale sono state, in terzo luogo, confermate anche dalla decisione assunta sempre nella legge 40/07 di istituire, dopo gli istituti tecnici e professionali quinquennali, la cosiddetta Istruzione tecnica superiore (Its) biennale/triennale. A questa tipologia di istruzione, infatti, non possono iscriversi, per legge, sebbene posseggano le competenze generali e specifiche richieste per superare le prove di accesso, i diplomati dell'”istruzione e formazione professionale” regionale. Inoltre, essendo concepita come non integrata con quella disponibile nei corsi dell’Istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts) di durata più variabile (da 6 mesi a tre anni), successivi all’istruzione e formazione professionale delle Regioni e, soprattutto, con quella universitaria, finisce per pregiudicare, nel lungo periodo, il proposito di istituire, a fianco dell’università, un vero e proprio “sistema dell’istruzione e formazione professionale superiore”, contenente corsi professionali di durata variabile, ma di pari dignità educativa, culturale e ordinamentale con quelli universitari. In questa maniera, resta inalterato il pregiudizio che equipara la dimostrazione di “eccellenza” di un giovane alla frequenza con ottimi voti prima del liceo e poi dell’università, ma non certo dei percorsi dell’istruzione e formazione professionale prima secondari e poi superiori.
Ad ulteriore sanzione del collaudato paradigma formativo separatista e gerarchico, la legge finanziaria del 2007 aveva disposto, infine, due ulteriori provvedimenti: lo spostamento dell’inizio dell’apprendistato formativo dai 15 ai 16 anni e la reintroduzione, dopo i 16 anni, della tradizionale gerarchizzazione qualitativa e quantitativa esistente tra “obbligo di istruzione” per chi prosegue gli studi e “obbligo formativo” per chi, invece, frequenta i vecchi corsi regionali della formazione professionale ex legge 875/78 o lavora con l’istituto giuridico dell’apprendistato professionalizzante.
Per fortuna, il Titolo VI, Capo I, artt. 47, 48 della legge 9 novembre 2010, n. 182, ha reintrodotto la possibilità di cominciare l'”apprendistato formativo” in diritto-dovere per l’ottenimento di una qualifica professionale a 15 anni e di poterlo concludere a 29 anni dopo aver eventualmente percorso l’intera filiera dei titoli di studio, fino al dottorato di ricerca. Rivendicando, in sostanza, in questo modo, l’urgenza di realizzare al più presto la per ora ancora teorica pari dignità educativa e culturale del “sistema dell’apprendistato formativo” secondario e superiore (15-29 anni) rispetto al “sistema di istruzione” statale, sempre secondario e superiore (14-24 anni), e al “sistema dell’istruzione e formazione professionale” regionale che inizia a 14 anni, si chiude con il diploma a 18, ma che, come frequenza di Ifts e come formazione professionale permanente, si potrebbe e si dovrebbe prolungare per l’intera durata della vita lavorativa.
Nel primo caso con una formazione generale e specifica in assetto di lavoro e negli altri due una formazione generale e specifica centrata sulla metodologia dell’alternanza formativa scuola/società e scuola/lavoro (art. 5 della legge n. 53/03). Scenario, questo, che anche i Regolamenti Gelmini di riordino dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali (Dpr. 15 marzo 2010, n. 89) hanno smentito.
Il recupero di un dibattito serio, sereno e documentato sulle ragioni che, a partire dalla sperimentazione Carrozza, possono, dunque, portare il nostro paese ad adottare anche nel “sistema di istruzione” del secondo ciclo la durata quadriennale dei percorsi formativi, come accade per il diploma acquisibile nel “sistema dell’istruzione e formazione professionale” delle Regioni, non può che essere salutato positivamente. Forse, visti i trascorsi finora riassunti, giungiamo addirittura troppo tardi all’appuntamento, per spenderlo in maniera non strumentale ed opportunistica.
(3 − continua)