Il pessimismo di Piero Ostellino sul Corriere della sera dell’8 ottobre è raccolto nel titolo eloquente “La fine della politica”. È un pessimismo facilmente condiviso da chi non si accontenta dello pseudo-dibattito politico corrente, cioè della rissa permanente, e non si limita a individuare qualche ragione settoriale che dovrebbe render conto del cattivo funzionamento della politica italiana. Ostellino esprime un giudizio globale, perché la crisi è di sistema.
C’è “una caduta verticale della categoria del politico”, di cui è sintomo ad esempio la sterile contrapposizione tra un berlusconiano “primato della politica sulla morale” e un antibelusconiano “primato della morale sulla politica”. Opposizione in cui si consuma “un’artificiosa contrapposizione del diritto alla politica” in cui ne va di un fondamento del liberalismo, con preoccupante analogia con la vicenda della Repubblica di Weimar, che nel caso italiano potrebbe aprire, secondo Ostellino, a una forma di autoritarismo populista come fu quella di Peròn.
L’aspetto interessante della diagnosi di Ostellino mi pare essere l’idea che comunque nella “coazione a ripetere” delle attuali polemiche politiche non ne vada solo un’atmosfera politica (irrespirabile), ma sia in gioco qualcosa di fondamentale per la democrazia liberale nel nostro Paese. La faticosa democrazia italiana invece che maturare sembra regredire, sino a rischiare la rottura tra fattori istituzionali che le sono essenziali, come l’amministrazione della giustizia e la gestione politica della cosa pubblica.
In una precedente intervista rilasciata al sussidiario, in cui Ostellino parlava della “rivoluzione [liberale] fallita di Berlusconi”, l’attenzione, rivolta più all’ethos politico italiano che alle istituzioni, concludeva in modo sconfortante: il nostro Paese “resta tutto sommato un paese fascista”, non in senso ideologico, ma come costume contrario all’esercizio impegnativo della libertà e all’assunzione di responsabilità. In realtà, chi governa il Paese sono delle “corporazioni”, di cui la stessa funzione pubblica è venuta a far parte (v. conflitto potere centrale e regioni).
Domina perciò l’antipolitica, alla quale è funzionale che i problemi di fondo del Paese non siano risolti, mentre la politica, incapace di mediare tra i potentati, tende a cedere il passo a quel tanto di tecnocrazia che c’è nel nostro paese o a localismi mafiosi; cioè a gruppi di potere che non sanno che cosa farsene della “sovranità popolare”.
Questa cruda lettura della nostra condizione politica è aperta a un’ovvia discussione, ma non si può negare che contenga inquietanti elementi di verità. In ogni caso, pone il problema di quale possa essere un elemento di speranza politica, che sia anche un reale progetto per il Paese. Ostellino afferma nell’intervista che “la risoluzione dei problemi scaturisce solo dalla libertà”, che egli concepisce, da rigoroso liberale classico, come “capacità degli uomini di decidere individualmente e soggettivamente”, quanto ai propri interessi, preferenze, stile di vita ed esigenza di felicità.
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Affermazione indiscutibile, perché al fondo si tratta proprio di una energia di libertà che manca e di un’esperienza conseguente di cui c’è bisogno. Ma da sempre è stato obiettato al liberalismo che la libertà non è sinonimo di individualismo, che anzi la libertà individuale ha bisogno di un contesto sociale di libertà, come la pianta del suo terreno, e che il gioco fecondo è sempre quello delle libertà che in qualche misura si sappiano riconoscere con un impegno più grande della loro somma.
Detto in altri termini, in ogni caso c’è speranza politica, se vi sono libertà impegnate con un bene comune disponibile a tutti; libertà interessate al convivere e convinte che il convivere sia un bene irrinunciabile, il primo bene politico. È quelle che la Chiesa italiana sta ricordando e che nella prossima Settimana sociale dei cattolici sarà oggetto di riflessione.
Pur nel greve ethos politico del nostro Paese non è impossibile pensare e lavorare così; anzi, sarebbe l’unica cosa ragionevole, se non si vuol essere complici di un declino delinquenziale, cioè colpevole. Il fatto è che è difficile vedere energie intellettuali, sociali e politiche (queste tre indispensabilmente unite) decise a questo anzi tutto e sopra tutto. È difficile perché il potere di ricatto corporativo è fortissimo, eppure è l’unica speranza davvero “politica” che abbiamo; cioè di parole e fatti che ricompongano un quadro e mostrino una direzione possibile per il bene comune.
Come non vedere, ad esempio, per chi sta nell’ambiente giovanile della scuola, dell’università e del lavoro, che il tradimento più grave della politica sta nel non dare ai giovani la fondata sensazioni di essere non cittadini casuali, ma figli di una Nazione, che pensa ad essi e che lavora, anzi che li chiama al lavoro, per costruire il loro futuro, cioè la loro comune eredità? E come non vedere che l’apertura di questa prospettiva non dipende dall’aver risolto tutti i problemi di natura economica e istituzionale, bensì dal rendere compartecipi a un progetto realistico di valorizzazione delle risorse umane giovanili del Paese interessato all’impegno e alla responsabilità delle energie migliori (che è vigliacco dire che mancano in Italia), forse proprio quelle più disponibili a non soggiacere al ricatto corporativo?
Forse la buona politica non è anzitutto quella che risolve i problemi, ma quella che suscita energie per risolverli e quindi trova alleanza in forze più fresche e più generose. Ma forse perché ciò accada è necessario anzitutto che vi sia un po’ di freschezza e di generosità politica. Con buona pace della politologia, forse la politica è anche un “affare di cuore”.