Il bel film di Olmi, Torneranno i prati, è una dolente meditazione sulla vita in trincea che fa sperimentare ai soldati la loro condizione umana, così diversa da quella delle bestie. L’opera solleva tra le altre cose, specie nelle parole conclusive del giovane ufficiale deluso, importanti temi sui quali la storiografia della prima guerra mondiale ancora s’interroga e sui quali si può intessere un dialogo con gli alunni.
Le domande potrebbero raggrupparsi così: il clima esaltato per l’avvento della guerra toccava nel profondo i popoli che si sarebbero affrontati sui fronti contrapposti? Di chi era portavoce chi salutava l’imminente, poi rivelatosi terrificante, “caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne” (Papini)? Le euforiche giornate dell’agosto 1914 verificatesi a Berlino, Parigi e Vienna riguardavano tutti gli strati sociali? E le radiose giornate italiane del maggio 1915 quale messaggio implicito ed esplicito contenevano? Da chi erano organizzate e contro chi? Nello stesso tempo, poteva essere accusato di disfattismo e antipatriottismo chi era dubbioso o fortemente contrario alla guerra e ai suoi possibili esiti: accusa che ha avuto un lungo strascico di polemiche, tanto che ancora oggi si discetta dell’espressione “inutile strage” di Benedetto XV, come di un intervento inopportuno?
La storiografia sterminata della Grande Guerra ha restituito ormai la giusta dimensione a tutte le parti in causa: le nazioni, gli Stati, gli eserciti e i loro stati maggiori, le masse, i singoli. Non c’è dubbio che la febbre collettiva scatenatasi in Europa alla notizia dello scoppio del conflitto abbia attraversato in profondità l’establishment culturale del vecchio mondo. Gli intellettuali confidavano nella guerra come soluzione dei grandi problemi che si affacciavano all’orizzonte della storia: si stava dissolvendo l’eredità del medioevo e i grandi imperi multietnici sembravano non tenere il passo della modernità, dunque era forse conveniente, essi pensavano, una prova di forza per dimostrare la superiorità della propria terra o della propria classe. In qualche modo il nazionalismo, il socialismo rivoluzionario e interventista e l’imperialismo militarista si toccavano e a volte si confondevano. Sorprendono ancora, ed è importante occuparsene distintamente nel momento in cui si presenta la guerra ai giovani studenti, le adesioni dei grandi nomi dell’élite culturale alla logica dello scontro decisivo e salvifico.
La Germania, ritenuta dagli storici tra le prime responsabili del disastro avendo già da tempo preparato l’assalto al potere mondiale, ebbe dalla sua parte tutti, o quasi, i vertici del pensiero accademico. Il recente libro di Gian Enrico Rusconi (1914. Attacco a Occidente) e vari convegni hanno illustrato molto bene quella che da parte tedesca fu sferrata come Kulturkrieg, cioè guerra culturale, per opera del Kulturvolk, cioè del popolo eletto che si mobilitava anzitutto contro l’Occidente, e non contro la Serbia da dove era provenuto, a Sarajevo, il fatidico colpo di pistola.
Basterebbe citare, per inquadrare il fenomeno, Thomas Mann quando scrive che “le radici spirituali di questa guerra che ha tutti i titoli per chiamarsi guerra tedesca affondano nel protestantesimo organico e storico della Germania; questa guerra rappresenta in sostanza una nuova esplosione, la più grandiosa forse, e molti credono l’ultima, dell’antichissima lotta dei tedeschi contro lo spirito dell’Occidente e della lotta dello spirito romano contro la pervicace Germania” (I pensieri sulla guerra. Settembre 1914).
E come non ricordare l’Appello al mondo della cultura dei 93 uomini di cultura tedeschi, promosso nell’ottobre ’14 dal filologo classico Wilamowitz e comprendente nomi come quelli del biologo Ernst Haeckel, del fisico Max Planck, dello psicologo Wilhelm Wundt. Si sostiene, nell’appello, che “non è vero che sulla Germania ricade la responsabilità della guerra. Senza il militarismo tedesco la cultura tedesca sarebbe sradicata da un pezzo. L’esercito e il popolo tedesco sono una cosa sola”. Parole che oggi fanno rabbrividire, ma che in altri modi e contesti furono sottoscritte da tutti i contendenti per la rispettiva parte. Magari forse non dall’Italia, che aveva sì un esercito, ma che alle soglie del conflitto pare contasse di più, per difendere il suolo nazionale e le sue coste, sullo sviluppo della Marina militare, sulla base dell’assunto per cui “per difendersi da una flotta, la migliore difesa è un’altra flotta”.
Forse anche nel ridimensionamento dell’esercito sono da individuare i prodromi della fatale Caporetto italica che avrebbe segnato per tutta l’Intesa il decorso delle operazioni belliche. Che cosa stava accadendo? Bisognerebbe chiedersi se la guerra dei professori e dei letterati sia stata anche la guerra dei contadini, dei comuni lavoratori non ideologizzati, dei soldati semplici, oppure se questi non abbiano combattuto un’altra guerra che poco o nulla aveva a che spartire con la prima. La Grande Guerra fu all’inizio, prima della svolta del 1917, una guerra tra Stati che dalla fine del XIX secolo erano riusciti a compattare le loro economie e i loro confini, e ora miravano a compattare le masse al loro interno. E di che cosa era fatto il tessuto sociale di queste masse operaie, contadine, medio borghesi, prima del lavacro generazionale? Era fatto di fede cristiana e di ideali umanistici, di esigenze di pace, pane e lavoro, di qualcosa insomma che avrebbe dovuto unire i popoli anziché dividerli. Proprio il contrario dello spirito nazionalistico e conformante che poi prevalse al di là delle migliori intenzioni e si sovrappose a pur giuste istanze che non trovarono sbocco se non nella dialettica del nemico esterno/interno a cui contrapporsi.
In un certo modo la guerra dei professori e dei giovani poeti era diretta anche contro una parte del proprio paese, quella giudicata tradizionalista, pacifista, ancorata al passato, troppo dominata, in Italia, dalla giolittiana logica delle cose. La guerra dei figli contro i padri si incrociò inevitabilmente con gli egoismi nazionalistici e antiparlamentari, quindi antidemocratici.
Ma c’è anche un’altra storia, quella di chi anziché aderire ad un antimilitarismo ideologico e ad oltranza decise di rimanere vicino alla propria nazione affinché la imminente guerra fosse almeno l’ultima. Come scrisse Péguy, “non dipende da noi che l’avvenimento scatti, ma dipende da noi di farvi fronte; per mantenere la pace bisogna essere almeno in due; chi ha fatto una minaccia la può sempre mettere in esecuzione” (Louis de Gonzague).
Da ultimo, per tornare agli spunti introdotti dal film di Olmi, è anche utile ricordare che la guerra europea fu uno scontro tra combattenti inquadrati rigidamente nei ranghi di eserciti guidati da stati maggiori che confondevano l’autorità con l’autoritarismo, salvo poi condurre da incompetenti le truppe al massacro. E tuttavia anche questa umanità sottoposta alla prova del fuoco, che non aveva davanti a sé molte alternative se non quella di obbedire agli ordini, fu talvolta capace di grandi, consapevoli riscatti. Un esempio tutto italiano è la riscossa di cui furono protagoniste le forze armate dopo la tragedia di Caporetto, la località dove il 24 ottobre del 1917 le truppe austro-tedesche sfondarono le linee italiane, minacciando l’integrità territoriale nazionale.
A guerra ancora in corso, esattamente nel gennaio 1918, fu istituita una commissione d’inchiesta sulle cause del crollo militare italiano, nella cui relazione conclusiva (da poco ripubblicata), le colpe furono addossate ai vertici militari che avevano piegato il morale delle truppe, a colpi di tribunali militari, condanne a morte, esecuzioni, decimazioni, repressione cruenta degli ammutinamenti. Non è questa la sede per ridiscutere delle responsabilità. Indubbiamente ci fu però una controffensiva, il nostro “Piave”, che registrò un’enorme collettiva partecipazione di truppe e di popolo. Accanto ai padri, è stato scritto, scesero in campo anche i figli, i ragazzi del ’99. E appena dietro a padri e figli le loro famiglie, a difesa di un ideale di unità non avvertita per una volta tanto quale vuota retorica. Forse per capire quello che è poi accaduto alla nostra storia nazionale, più che da Caporetto, bisognerebbe ripartire da qui, da questo impeto generale di chi pensava davvero che la guerra fosse l’ultima.