“Siamo fatti come lui. Possiamo mille volte tradire, tentare di cancellare questa immagine di Dio che è in noi, ma rimane, al fondo del nostro essere, la certezza che solo donandoci possiamo trovarci. ‘Chi si perde si trova’”. Ci porta fino a lambire tutta la vertiginosa profondità dell’origine che sta all’inizio del nostro esistere nel mondo il modo in cui mons. Massimo Camisasca torna sul tema cruciale della carità nel suo ultimo libro (Benvenuto a casa. Le ragioni dell’accoglienza, San Paolo, 2013, pp. 98).
L’agile volumetto raccoglie le parole che l’autore ha rivolto all’associazione Famiglie per l’Accoglienza nell’arco degli ultimi sette anni. Riunendole insieme, traccia un percorso che aiuta a fare luce sulla forma da dare alla propria vita. La proposta di un giudizio è contrappuntata da brani di testimonianze ed esempi prelevati dalle lettere scambiate con genitori e figli che la delicata esperienza dell’ospitalità offerta, nella propria casa, a bambini e ragazzi altrui l’hanno vissuta in prima persona, tramite l’affido o l’adozione. Ma si coglie subito che il libro non è un manuale per addetti ai lavori: prende avvio dal mistero dell’accoglienza che si apre per fare spazio all’estraneo, ma da lì ricava lo spunto per interrogare ogni “io” che, per il semplice fatto di esistere, viene da un “tu”, e con una folla di altri “tu” è chiamato senza sosta a interagire. Nessuno può prescindere dal fatto di essere una creatura che sorge e si muove dentro una trama di rapporti che ci precedono, abbracciandoci da ogni lato. Si può tentare di farci i conti in modo serio; oppure fingere di essere individui autonomi, al centro di un universo che ruota arrancando intorno a noi, docilmente al nostro esclusivo servizio.
Per abbordare di petto la questione dell’inesorabile connubio dell’io e del tu sarebbe inconcludente fermarsi a ragionare solo sulle conseguenze etiche e sull’utilità del nostro sforzo morale. Il realismo impone di capovolgere le prospettive: prima di arrivare ai frutti, bisogna partire dalle radici che danno linfa all’albero, senza le quali non ci sarebbe la vita. È nel principio che si può scavare per decifrare la natura di ciò che, sviluppandosi, poi produce effetti, segni concreti, modi di agire e comportamenti per incidere sull’ambiente. La meditazione di Camisasca poggia risolutamente su questo pilastro dell’oggettivo da cui tutto il resto fluisce come riflesso. Non c’è nessun automatismo: l’esito è da desiderare, va chiesto e coltivato. Ma senza un inizio, senza un terreno fertile in cui il tronco possa affondare tenacemente non ci può essere nessuna promessa che si realizza, nessuna crescita che arriva fino ai particolari più concreti delle scelte da assumere nel quotidiano.
Quello da cui il resto deriva è il primato ontologico dell’amore che tiene insieme ciò che è diverso e crea la comunione. Tutto ciò che esiste, fuoriesce dall’amore di Dio che crea e attira sé le cose e gli esseri viventi: “Quando non esisteva nulla se non Dio, esisteva l’amore. E dopo, in ogni istante della storia del mondo, ancora l’amore ha costituito il cuore di ogni cosa e di ogni esistenza. Tutto è contenuto dentro questa parola”. “L’essenza dell’essere è l’amore”: per essere ancora più espliciti, “all’origine di tutto, quando non c’era nulla, ma proprio nulla se non Dio, egli era già un ‘essere insieme’. (…) All’origine di tutto sta un Padre che ama un Figlio, lo ha generato ed è tutto in quel Figlio, come il Figlio è tutto in quel Padre. E questo loro rapporto d’amore è una terza Persona. All’origine di tutto c’è la Carità”.
Bisogna risalire fino alla nuda semplicità della creazione. La suprema libertà di Dio che è tutto e non ha bisogno di nulla si ribalta nell’originaria comunione che noi vediamo strutturarsi nel mistero spettacolare del condividere trinitario. Il gesto che sta all’inizio della vita è Dio che accoglie in sé l’altro, non accettando, per natura, di chiudersi in una solitudine autosufficiente. Questo è il marchio impresso nelle fibre più segrete di ciò che viene chiamato all’esistenza, compreso ognuno di noi: avendoci voluti, Dio non può non averci voluti come lui: “non soltanto intelligenti e liberi ma, più profondamente, destinati ad essere insieme, a compiersi in altri, a cercarsi e a trovarsi. Ha messo dentro il nostro cuore l’impronta del suo essere”.
Guardando alla realtà così come essa è fatta, partendo dal suo fondamento, non si può non arrivare ad arrendersi alla scoperta della positività come ragione ultima di ciò che esiste. Cominciando dal nostro io personale, “la vita è dialogo”. Nel volto dell’altro, come in uno specchio che fa risaltare il dramma costitutivo della reciprocità, cioè dei legami di amore da cui proveniamo, noi afferriamo il senso vero del dinamismo che è alla base di tutte le infinite variazioni nel mare inesauribile dell’essere: non ci facciamo da noi, non possiamo bastare a noi stessi. “Io sono tu-che-mi-fai”: dal primo sussulto di un cuore che batte, fino a ogni attimo che ci accompagna in una esistenza di per sé proiettata verso un destino che non può arenarsi nel nulla.
Se vivere vuol dire ricevere la vita, e vedersela donata a ogni istante, allora non può essere cosa solo nostra, un nostro geloso possesso da blindare in un forziere. Sarebbe un andare contro il flusso della realtà da cui noi stessi scaturiamo. Perché vivere è prima di tutto un essere accolti: la “scoperta di essere amato”, cioè voluto per un destino di bene, quindi sempre perdonato e rigenerato nella storia della pazienza divina che scavalca la barriera del tempo, è “l’esperienza più importante della vita”. Solo “quando si vive la gioia di essere accolti, si diventa capaci di accogliere”. L’accoglienza e la carità maturano come dimensione della vita in quanto attecchiscono nella viva esperienza di un amore che prima di tutto raggiunge noi e ci trasforma. L’accoglienza dell’altro è la dilatazione del bene in cui noi per primi abbiamo trovato dimora.
I risvolti pratici di questa logica del contagio che parte dall’esperienza dell’io sono messi in evidenza nei capitoli conclusivi del volume, collegandoli ai “rapporti primari” che scandiscono la vita di tutti nella sua quotidianità: innanzitutto a partire dallo spazio elementare della famiglia. Sono chiamati in causa, in primo luogo, “marito e moglie”. La pazienza è il dono fondamentale da chiedere. L’accoglienza nasce, infatti, dal “perdono della diversità”, e il perdono si nutre del rifiuto della misura. La carità ha bisogno della “casa” per alimentarsi e prosperare. E dalla casa può tentare di espandersi verso i confini della società intera, traducendosi in opere, servizi, iniziative e strutture di aiuto che, nella coerenza fedele di una storia, se sanno restare attaccate alla loro origine, possono diventare stabili e offrirsi come una autentica risorsa per il bene di tutti.
Un test decisivo sarà sempre di più, in questa cornice, l’atteggiamento della famiglia verso gli anziani. Loro sono la “sentinella” che vigila sui confini estremi della vita. Ci richiamano a non confondere il provvisorio con ciò che tiene fino all’ultimo: “la vita dobbiamo rispettarla, custodirla, e infine riconsegnarla”.