Ha avuto subito un grande risalto la notizia – diffusa qualche giorno fa in occasione della pubblicazione sulla rivista Neuron – della scoperta di un gene che suggerisce uno dei possibili meccanismi alla base della sclerosi laterale amiotrofica (SLA). L’eco è derivato in primo luogo dall’importanza in sé della scoperta che, pur essendo un piccolo passo legato a un numero limitato di casi, apre la strada a promettenti indagini. Ma ha trovato risonanza anche per il fatto che la ricerca, effettuata sul Dna di famiglie italiane e statunitensi con membri malati di SLA, è stata finanziato da FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio), oltre che da Fondazione Vialli e Mauro e Ministero della Salute. La SLA infatti è anche nota come morbo di Lou Gehrig, dal nome di un giocatore di baseball che ne fu colpito; e sembra che i calciatori siano 6,5 volte più a rischio di ammalarsi, con esordio precoce intorno ai 40 anni rispetto ai 60-70 anni della più generale insorgenza della malattia.
La SLA è una malattia neurodegenerativa incurabile caratterizzata dalla morte dei neuroni motori di cervello e midollo spinale; porta alla paralisi e la morte di solito interviene per blocco respiratorio ad alcuni anni dalla diagnosi. In Italia ci sono circa 5000 persone affetta da questa malattia. Quello che viene descritto nell’articolo “Exome Sequencing Reveals VCP Mutations as a Cause of Familial ALS” è una mutazione nel gene VPC (Valosin Containing Protein), che si trova nel cromosoma 9, che spiegherebbe come i neuroni del movimento si intossichino perché si inceppa il processo di smaltimento dei rifiuti cellulari e così tali rifiuti si accumulano a dismisura: dalla distruzione dei neuroni del movimento deriva poi la paralisi che colpisce i malati di SLA.
Lo studio presentato ha coinvolto il Laboratorio di Neurogenetica dell’NIH di Bethesda, il Centro SLA dell’ospedale di Modena e il laboratorio di genetica molecolare dell’azienda ospedaliera OIRM Sant’Anna; la ricerca è stata condotta da un buon numero di team in Italia e Usa e l’articolo vede le firme di 36 ricercatori e medici, di cui 15 italiani. Abbiamo chiesto a uno degli autori, Fabrizio Salvi, responsabile del Centro il Bene per le malattie neurologiche rare e neuroimmuni dell’Ospedale Bellaria di Bologna, di spiegare a ilsussidiario.net il valore di questo studio.
Quali sono quindi i motivi di importanza di questa ricerca italo-americana?
Come emerge dall’articolo comparso su Neuron, la ricerca ha un’importanza multipla. Anche perché viene impiegato un nuovo metodo di indagine di genetica molecolare che potrebbe essere applicato già da ora ad altre patologie eredo-neurodegenerative a trasmissione dominante.
Si è trattato di una ricerca che ha implicato numerosi scienziati?
Sì, è il risultato di un lavoro congiunto di un’equipe di ricercatori americani e italiani; questi ultimi provengono da differenti gruppi di lavoro – in pratica dai Centri per la Sclerosi Laterale Amiotrofica – che si sono riuniti sotto la dizione di gruppo ITALSGEN.
Che cosa è stata effettivamente scoperto?
È stato scoperto che una mutazione del gene VCP può causare la sclerosi laterale amiotrofica. Il gene della VCP (una proteina che contiene Valosina) codifica una proteina che è essenziale per la maturazione degli autofagosomi che contengono ubiquitina. La tossicità della VCP mutata è mediata dal suo effetto su un’altra proteina, la TDP-43 già implicata in alcune forme di sclerosi laterale amiotrofica familiare. Si valuta che il 5% dei casi di sclerosi laterale amiotrofica sia familiare e di questi circa il 15% è causato da mutazioni nel gene della SOD1 (superossido desmutasi 1); un ulteriore 3-4% sono legati a mutazioni di due altri geni che sono FUS e il già citato TDP-43.
Si può ipotizzare che 1-2% di queste forme familiari sia dovuto alla scoperta del nuovo gene mutato VCP.
È presto per parlare di conseguenze terapeutiche?
Bisogna dire che ogni nuovo gene implicato nella eziologia della sclerosi laterale amiotrofica porta luce sulla patogenesi della degradazione e morte del motoneurone e facilita pertanto l’ipotesi di nuovi modelli di malattia che a loro volta favoriscono il disegno di nuovi approcci terapeutici.