Secondo Massimo Borghesi, una delle cause della crisi della scuola è l’abbandono dell’asse del soggetto (“il soggetto assente”), quale è stato elaborato dalla tradizione greco-cristiano-moderna. L’altra è quella dello scollamento scuola/lavoro. La tradizione greco-cristiano-moderna è esplosa nel ’68. Si cita, appunto, un saggio del 1987, che Luc Ferry e Alain Renaut hanno dedicato al “68 pensiero”. A questa tesi storiografica Borghesi arriva dopo una lunga rassegna dei percorsi filosofici del relativismo e del nichilismo.
La tesi non appare solida. Se la causa ne fossero il relativismo e il nichilismo, bisognerebbe andare molto più indietro, così indietro che la crisi della scuola, quale noi oggi sperimentiamo, era ben al di là da venire.
In realtà, l’inizio della decostruzione dell’eredità umanistica o della “morte del soggetto” deve essere anticipata di parecchio, almeno a Nietszche (morto nel 1900), dal punto di vista della genealogia filosofica, ma, soprattutto dal punto di vista storico-epocale, a quell’evento catastrofico per la civiltà europea che fu la Prima guerra mondiale. Nella temperie culturale che la avvolse e che, soprattutto, ne seguì, confluirono “la crisi dei fondamenti” di Russell e di Wittgenstein, l’indeterminismo di Heisenberg, “l’incompletezza” di Goedel, l’Heidegger di Sein und Zeit, la psicanalisi di Freud, l’esistenzialismo di Jaspers… Ma siamo nel decennio 1920-30, non negli anni Sessanta. Heidegger è probabilmente l’interprete più consapevole e più lucido di questo sentire comune, che vuole congedarsi radicalmente dalla grecità, dal cristianesimo, dall’illuminismo, dal marxismo, dal positivismo, dall’umanesimo: “L’Essere si può dire solo in tedesco”. E qui il “tedesco” è la lingua e l’ontologia del Volk. Perché, allora, sovraccaricare sul ’68 eventi e storie di gran lunga precedenti? Per due ragioni: per arrivare a concludere, secondo una recente vulgata, che la crisi della società italiana e della politica siano “tutta colpa del ’68” e che la sinistra ha qui legittimato la cultura di destra, attaccandosi, per questa conclusione, alle esternazioni politologiche di Cacciari e a quelle ermeneutiche di Vattimo.
Questa operazione ideologica di riduzione è possibile, solo se si riduca il complesso dei fenomeni socio-culturali degli anni Sessanta all’anello scarnificato di un’unica catena logico-deduttiva, perdendo di vista, alla Vattimo – appunto -, la consistenza storico-ontologica degli eventi. Quei movimenti furono dei moti di liberazione dalla società opulenta, gerarchica, autoritaria e perbenista del periodo della ricostruzione post-bellica degli anni Cinquanta. Il movimento partì dagli Stati Uniti per raggiungere con qualche anno di ritardo prima la Germania, poi l’Italia, poi la Francia. Essi furono certamente attraversati da correnti e frammenti di culture della metà del secolo precedente, giacché gli intellettuali organici dei vari ’68 si rivolsero agli archivi filosofici del 900 per trovare le parole per dire le proprie domande e le proprie risposte.
Ma, per quanto ne sia convinto Allan Bloom nel suo famoso libro del 1987 − The Closing of the American Mind − non è certo l’heideggerismo dei fuoriusciti quello che ha attraversato i movimenti americani degli anni Sessanta. Si tratta piuttosto dell’individualismo estremo di una certa tradizione americana da Thoreau a John Stuart Mill, intrecciata con le suggestioni della scuola di Francoforte di Marcuse, Adorno, Horkheimer.
In Germania l’influenza di quest’ultima fu più forte, si intende. Ma in Italia, gli attraversamenti sono più complicati. Qui sono piuttosto i marxismi a fornire le parole: lo storicismo crocio-togliattiano, il dellavolpismo, il marxismo utopico di Benjamin, Korsch, Bloch, il consiliarismo di Luxemburg e di Gramsci, il cristiano-marxismo della teologia della liberazione, il maoismo. Nessuna traccia né di Sartre né di Heidegger, per la cui filosofia continuò a valere la condivisione dell’epitaffio di Lukacs: “il mercoledì delle ceneri del soggettivismo parassitario”. E neppure in Francia, nel breve maggio del ’68, si può dire che Lévi-Strauss o Althusser o Lacan o Lévinas o Derrida abbiano suscitato o attraversato il movimento. Arrivarono post-festum o si agitarono prima, ma a lato. Il movimento del maggio fu un mix instabile di libertarismo americaneggiante e di giacobinismo rivoluzionario, che non ebbe neppure la durata necessaria per elaborare un ’68-pensiero, quale con eccessiva audacia filologica e storiografica gli viene attribuito. Non è certo sul terreno del pensiero che il ’68 ha lasciato le sue maggiori tracce. Non si trattò di nessuna “gioiosa macchina da guerra” né può essere a posteriori ricostruito come la notte in cui tutte le vacche sono nere, nichiliste e contestatrici.
Del resto, è difficile collocare Marx nella scia del relativismo e del nichilismo, a meno di allargare i confini semantici fino a comprendervi il materialismo storico e il comunismo.
Ed è proprio questo il punto: la chiave del nichilismo è divenuta un grimaldello interpretativo capace di aprire tutte le porte. C’est plus facile!, perché finisce per dispensarci pigramente da un’analisi concreta dei fattori di crisi del sistema nazionale di istruzione, formazione, educazione. Alla quale questa testata ha già dedicato centinaia di articoli. Crisi dovuta alla scolarizzazione di massa, per la semplice ragione che il sistema ha mantenuto una configurazione élitaria e perciò è esploso. Dovuta, dagli anni Settanta fino ai giorni nostri, al deperimento oggettivo della scuola-santuario-del-sapere.
Non è la scuola che ha abbandonato i tre logoi: quello biblico, quello greco, quello moderno; sono i ragazzi che stanno “abbandonando” la scuola con il cervello e, sempre di più, anche “con i piedi”, perché la parcellizzazione amministrativo-sindacale della didattica è incapace di offrire lo splendore di quella tradizione a tutti e a ciascuno, non solo a quelli, ma sempre meno, del liceo classico. Una scuola nella quale il tempo di apprendimento non è più tempo di vita e di costruzione del Sé. Una scuola dove gli insegnanti hanno un’età media di 52 anni e non sono mai stati preparati a insegnare e a educare. Crisi dovuta agli ingenti mutamenti socio-economici e antropologici della terza rivoluzione industriale, ecc…
Tutta questa crisi è riconducibile al nichilismo/relativismo? Mah.