I contributi di Tiziana Pedrizzi e di Marco Campione sul reclutamento dei dirigenti, a partire dalla “questione Vicenza”, portano al centro dell’attenzione il tema sottovalutato della centralità del ruolo dirigente per il buon funzionamento, anzi per la stessa sopravvivenza della scuola autonoma. Sta arrivando anche in Italia l’emergenza riscontrata già da una decina di anni negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi, dove diventava sempre più difficile trovare bravi dirigenti per le scuole, con la differenza che qui nessuno pare accorgersene. Se si creano dei vuoti, l’importante è riempirli, non importa come. Eppure, la scuola autonoma basata sulla qualità del progetto educativo non si gestisce seguendo regolamenti burocratici, o ancora rincorrendo affannosamente l’emergenza quotidiana, ma con la presenza di una leadership adeguata. Per risolvere il problema della dirigenza (oltre naturalmente a prendere atto che di un problema si tratta, e che si aggraverà nei prossimi anni) bisogna secondo me rispondere a due domande: che cosa deve saper fare un bravo dirigente? È in grado di farlo da solo?
Per rispondere alla prima domanda bisognerebbe avviare un serio processo definitorio, partendo dall’analisi di quel che la scuola deve fare per realizzare le proprie finalità, per passare poi a definire le azioni del dirigente per pianificare, attuare e controllare le attività della scuola, e infine ad individuare le competenze necessarie per compiere queste azioni. In una parola, sarebbe necessario costruire un completo profilo professionale del dirigente, da tradurre poi in un profilo formativo di acquisizione delle competenze medesime (o di riconoscimento, se per caso già le possiede).
Senza entrare nel dettaglio, risulta immediatamente evidente che si tratta di azioni complesse, che richiedono competenze altrettanto complesse: ma la pubblica amministrazione non sa definire i propri bisogni di risorse umane, non le forma e non si cura di selezionarle in modo rigoroso (e su questo verte, non su un presunto razzismo, la vicenda di Vicenza). Possiamo aggiungere che questa stessa amministrazione, dopo aver inserito quasi a caso le persone nel ruolo più delicato, quello da cui in larga misura dipende la qualità del servizio educativo, non si preoccupa di fornire loro i mezzi per fare quello che devono fare, segnatamente non consente loro di scegliere e di valutare le risorse umane, e – forse per farsi perdonare – non li valuta, né per premiarli né per impedire che facciano danni. Fa eccezione la Provincia di Trento, che utilizzando intelligentemente le proprie competenze ha avviato una procedura di reclutamento proprio sulla base di un preciso insieme di requisiti considerati necessari, e sta attuando da tempo un interessante progetto di valutazione dei dirigenti.
La seconda domanda ha una risposta che segue logicamente le considerazioni fatte finora: per governare un’organizzazione complessa come una scuola, esiste una funzione di governo guidata da un leader, esiste cioè un responsabile ultimo (il dirigente) che coordina un gruppo di collaboratori, di committed professionals. In questo, mi discosto dalla pur stimolante idea di una “scuola senza leadership”, e preferisco parlare di una leadership collaborativa. Ma a parte le considerazioni per addetti ai lavori, l’idea di un governo allargato, comunque lo si intenda, collide con la piattezza del ruolo docente, con l’assenza di qualsiasi funzione intermedia, cui dovrebbe porre riparo la “proposta Aprea”. Anche in questo caso, servirebbe una più analitica formulazione dei profili professionali, collegata ad avanzamenti di carriera e incentivi, e ancora una volta ad un sistema di valutazione.
P.S. Lo so che gli articoli non prevedono un poscritto, ma rileggendo mi nasce un amara considerazione: queste cose le dico e le scrivo da tempo, e non le dico solo io, e trovano d’accordo quasi tutti. Come è possibile, allora, che in tutti questi anni non si sia fatto quasi nulla per passare dalle parole ai fatti?