L’articolo di Michele Smargiassi su “La Repubblica” del 29 aprile scorso contiene interessanti spunti da approfondire. Non desidero fare commenti specifici sull’articolo in questione né sul libro di Irene Tinagli che, peraltro, non ho ancora avuto occasione di leggere.
Non è solo il solito, trito e ritrito problema dei “cervelli in fuga” né del basso livello qualitativo della nostra scuola (vedi ad esempio le indagini PISA). Si pongono al contrario quesiti molto interessanti: è su questi che vorrei soffermarmi più che sulle interpretazioni fornite nell’articolo. Il primo è: le cosiddette riforme scolastiche che si sono succedute negli ultimi decenni quali risultati hanno conseguito?
Bisognerebbe, per rispondere a tale domanda, porsene un’altra che non viene quasi mai posta. Quali erano gli obiettivi delle varie riforme? Si è data quasi sempre enfasi agli aspetti quantitativi ma quasi mai alla qualità della formazione.
Viene un dubbio: se sia stato ritenuto incompatibile un processo di aumento della scolarizzazione con il miglioramento o, almeno, il mantenimento, della qualità. Per far passare tutti si è abbassata l’asticella! A tutti i livelli. Quando alcuni anni fa è apparsa una statistica in cui appariva una correlazione quasi inversa fra livello di scolarizzazione e “sviluppo economico” di un territorio, alcuni avevano lanciato un allarme: non è che la scuola venga considerata “inutile”o, quanto meno, il valore aggiunto della scuola sia ritenuto molto inferiore a quello ottenuto da un ingresso il più possibile anticipato nel mondo del lavoro, anche se non particolarmente qualificato? Si è discusso in modo approfondito sulla qualità degli insegnanti, a tutti i livelli, e, quindi, sul sistema di reclutamento, sulla valutazione, sul progresso di carriera, sulla retribuzione?
Per passare all’università, si è analizzata e discussa, senza pregiudiziali ideologiche, la riforma del cosiddetto 3+2 a quali risultati ha portato e, ancora prima, l’effetto della diffusione sul territorio delle cosiddette università, al motto “un campanile, una università” senza alcun sistema di effettiva valutazione delle università stesse e mantenendo il valore legale del titolo? È proprio vero che la “precarietà” sia la causa dell’abbandono dei nostri più validi ricercatori o la causa non sia da ricercarsi altrove, ad esempio nella carente valutazione del merito, nella scarsa autonomia e responsabilità, nella carenza di mezzi adeguati per sviluppare una ricerca in tempi sufficientemente lunghi, nel livello salariale che soprattutto in alcune aree del paese (ma qui si innesca il problema delle “gabbie”) rende impossibile la vita a giovani che non vogliono o non possono dipendere dalla famiglia d’origine o, eventualmente, dal coniuge?
La nostra industria è disposta a valorizzare adeguatamente i talenti, dal reclutamento al sentiero di carriera. Dà uguale retribuzione, nel caso di aziende operanti in diversi stati, a un dottore di ricerca in Italia e all’estero? Chi fa ricerca ed innovazione vera, è premiato o non è addirittura punito? Ma, ancora, come mai nel “totoministri” non appare quasi mai la “Ricerca” mentre è ambito, ad esempio – absit iniuria verbis – il ministero dei Rapporti con il Parlamento?
Se non sbaglio in Corea, da qualche tempo, non è stato deciso che il Ministro della Ricerca sia il primo Vice Primo ministro? Non è che ci sia una correlazione fra questa decisione e l’incredibile sviluppo coreano? Non significa forse che si è deciso che, nella ripartizione di risorse, la priorità debba essere data alla ricerca anziché, tanto per dire, all’Alitalia o ai limiti di età per la pensione o alla retribuzione del personale della pubblica amministrazione, senza alcuna valutazione? Per non parlare poi della mobilità: facciamo o no in tutti i modi che, riducendo le nostre capacità di attrazione, i migliori (persone, capitali, aziende) se ne vadano, con scarse prospettive di ritorno?
Penso che sia arrivato il momento, senza toni apocalittici, di affrontare seriamente queste domande che sembrano le più importanti. Ce ne sono altre, ben vengano!
Si è discusso sulla necessità di un largo consenso per i problemi più rilevanti: forse si potrebbe partire proprio da questi, perché disporre di un capitale umano di valore è la condizione di base. Qualsiasi altra riforma, pur validissima, si poggerebbe sul vuoto.