Tra i dodici racconti che compongono I ventitre giorni della città di Alba, libro d’esordio di Beppe Fenoglio (1922-1963) pubblicato nel 1952, spicca Un altro muro. Fenoglio è noto per aver trattato il tema della Resistenza, a cui partecipò, senza toni celebrativi o agiografici, con uno stile “asciutto ed esatto”, come intuì da subito Calvino. Dietro all’avvenimento fondamentale della sua vita, la guerra partigiana, egli vide i risvolti esistenziali; si potrebbe dire che le inquietudini dei giovani protagonisti emergono sempre più sullo sfondo di quegli anni tragici, come documenta fin dal titolo il romanzo probabilmente più bello dello scrittore piemontese, Una questione privata.
Fenoglio non ha il respiro mitico di Pavese, l’altro grande scrittore langhigiano, ma preferisce affidarsi a un’oggettività psicologica di misura quasi flaubertiana. Un altro muro racconta i giorni di prigionia di Max, giovane partigiano catturato dai repubblichini, in attesa della fucilazione. Egli appare, fin dall’inizio, un partigiano pentito, abbandonato dai suoi amici: “ero badogliano”, dice al compagno partigiano garibaldino Lancia con cui condivide la pena di quei giorni. Sono in attesa dell’esecuzione, dovrebbero essere rassegnati, “ma la voglia di vivere invece non ti va mica via”, dice il compagno. Ma mentre in Lancia sembra sopravvivere solo un istinto, Max spera ancora in una liberazione: immagina i compagni girare “per le alte colline liberi e padroni della loro vita” e li odia per questo; invidia il fidanzato della sua ex ragazza, “ma solo perché lui non doveva essere fucilato, lui sarebbe vissuto e per l’enorme numero di anni che compongono la vita normale d’un uomo avrebbe potuto fare un’infinità di cose delle quali il possedere Mabì era assolutamente la più trascurabile”.
Si sente abbandonato da tutti, gettato in un’infinita solitudine. “Più niente dipende da noi. Per noi il giorno e la notte ce li fa il maggiore, ci fa lui la vita e la morte. E’ spaventoso che degli uomini abbiano una simile potenza, una simile potenza dovrebbe essere soltanto di Dio. Ma Dio non c’è, bisogna proprio dire che non c’è”. Tenta un’estrema solidarietà con Lancia: “Se ci mettono al muro insieme, facciamoci forza tra di noi”. Ma il compagno rifiuta, chiuso nel suo mondo di paure e di egoismi. Allora Max prorompe: “Se me la cavo…esco e non mi intrigherò più di niente. Nei partigiani non ci torno, tiro una croce sulla guerra e sulla politica… Purché me la cavi, faccio voto di solo guardare e non toccare nella vita, sono pronto a fare il pitocco tutta la vita”.
Dinanzi alla morte crollano tutte le sue certezze, le fragili ragioni dell’impegno politico non reggono più. Rivolto a Lancia: “Tu te la senti di morire per l’idea? Io no. E poi che idea? Se ti cerchi dentro, tu te la trovi l’idea? Io no. E nemmeno tu”.
Tutto il distacco e la diversità da quel mondo esplodono. Max non aveva mai ucciso, ha orrore per la violenza; quando ha visto uccidere un fascista gli sembrava che il cielo gli crollasse addosso. Ma è soprattutto un episodio a stagliarsi nella sua memoria: quando ha catturato un repubblichino ha provato pietà, tanto da pensare di confortarlo. Non gli ha sparato, lo ha consegnato al suo comando con la promessa che sarebbe stato risparmiato. Ma i suoi compagni tradirono e uccisero il prigioniero. Avverte il senso di un’acuta ingiustizia: “Quando ho vinto non ho intascato la posta, e adesso che ho perduto devo pagarla per intero. Ma mi sembra di pagare per degli altri”.
Dalla tana in cui sono rinchiusi, sentono i soldati giocare a calcio. Voci “calde e liete” di giovani penetrano nel luogo della sofferenza: Max immagina “le fughe e gli arresti” sul terreno invetriato dal gelo invernale e poi avverte “schioccar di dita, i botti del pallone ed il suo corto fruscio per l’aria”. Lo scrittore usa parole come “fughe” e “arresti”, riferibili sia alle azioni partigiane che al gioco del calcio: nella mente disorientata del giovane esse sembrano sovrapporsi in un tragico delirio. Il momento è giunto, le guardie sono arrivate a prelevare i due prigionieri per condurli davanti al muro.
I soldati, forse gli stessi che un’ora prima giocavano a football, fanno loro attraversare le strade e la piazza del paese, per portarli accanto a un altro muro, quello del cimitero, dopo quello del carcere. Max urla, sperando di attirare l’attenzione della gente. E soprattutto si chiede: dove sono i partigiani adesso? Perché non saltano fuori a salvarlo? In un crescendo degno di Dostoevskji, Max sente su di sé “il rumore della fine del mondo e tutti i capelli gli si rizzarono in testa”. Ai suoi piedi corrono rivoli di sangue: è il compagno Lancia steso a terra. I soldati ora fissano lui. Ma, ad un ordine del comandante, i soldati si lasciano alle spalle quel muro e si indirizzano, insieme a Max, verso la città. Gli viene spiegato che, fin dalla sera prima, un prete era sceso dalle colline, a intercedere per la sua liberazione: come ne L’idiota di Dostoevskij l’uomo, a cui era stata inflitta l’angoscia suprema, viene graziato all’ultimo momento.
Max non risponde e guarda “l’erba spuntare gialla tra la neve”. Anche lui, come il Barabba di Lagerkvist, non sa chi ringraziare della sua salvezza. Bisognerebbe proprio che ci fosse un Dio, avrebbe potuto dire Fenoglio.