Dall’Esposizione Universale tenutasi a Milano (efficace il titolo “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”) alla preziosa quanto efficace enciclica di Papa Francesco “Laudato si'”, l’ambiente e la cura del paesaggio sono entrati prepotentemente nel dibattito politico e sociale del nostro paese. Ci si interroga con rinnovata vitalità sui problemi tecnici, su “gli orrori delle urbanizzazioni periferiche, delle speculazioni edilizie, della incoscienza criminale di chi inquina, massacra, offende, opprime l’ambiente naturale e urbanistico” (come sottolineava Claudio Strinati in un’intervista in tempi non sospetti).
Eppure, più che l’ennesima occasione di denuncia, il tema ecologico rappresenta la straordinaria opportunità per l’uomo moderno per chiedersi nuovamente chi è. Sarebbe infatti ingenuo, se non addirittura controproducente, concepire esclusivamente soluzioni tecniche a problemi che non sono di per sé esclusivamente tecnici. Occorre “uno sviluppo culturale, civile ed economico” (come dice Andrea Carandini, presidente del FAI) o ancora meglio un “corretto esercizio della cultura”. Ma questo sviluppo culturale prima che farsi progettualità politica e visione del mondo deve interrogarsi su se stesso e su ciò che lo genera: non un progetto ma una rinnovata posizione antropologica.
La progressiva discrasia fra gli indirizzi politici e costituzionali (come l’art. 9 sulla tutela del paesaggio) e la realtà di inquinamento e abusivismo in cui versa il nostro paese poggia le sue basi su una perdita del senso della totalità. L’uomo moderno, determinato dalla coscienza del Potere, ha perso il suo concepirsi in relazione con il Creato (per usare le categorie della straordinaria enciclica di Papa Francesco). La realtà ha una propria dignità e non può essere ridotta unicamente a oggetto di dominio e di sfruttamento. Questa dignità intrinseca, se vissuta culturalmente, genera una libertà e una responsabilità a livello personale e comunitario nel rapporto con l’ambiente. “Bene comune” non è infatti una realtà astratta o un feticcio ideologico intorno a cui stringersi, ma è un vivere ed un approcciarsi alla realtà in maniera responsabile: è amministrare una risorsa e interagire con una bene in una modalità non solipsistica e di possesso, ma attraverso un’azione che al suo interno parte dalla coscienza di essere sempre in rapporto con altri intorno a sé. Esattamente come alcune oasi nel deserto che esistono da migliaia di anni perché gli anziani delle tribù beduine della zona distribuiscono l’acqua in quantità commisurata al numero delle famiglie e al numero dei figli, in modo da garantire la continuità della risorsa nel tempo.
Occorre un salto, prima che di conoscenza, di coscienza. Non è un caso che san Tommaso d’Aquino, parlando della natura, utilizzi una parola molto particolare cioè afficio, che vuol dire sia essere colpiti che colpire. Solo così si comprende la straordinaria attualità di una frase come quella di Benedetto XVI: “non è la scienza che redime l’uomo, l’uomo viene redento mediante l’amore” (“Spe Salvi”, 2007). Non l’amore verso gli altri e verso la realtà inteso come affettività appiccicosa ma in quanto coscienza vissuta di una co-dipendenza, di un reciproco riconoscimento di valore. Una dinamica rivoluzionaria per un mondo in cui l’uomo vive costretto dentro gli schemi di relazioni imposti dal consumismo.
Forse, è meglio tornare ad essere tutti un po’ più beduini.