«Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l’animo, e disira; per che di giunger lui ciascun contende». Così, nel XVII canto del Purgatorio, Dante Alighieri definisce l’attesa che costituisce il cuore di ogni uomo. Nel corso della storia, numerosi sono stati i tentativi non solo di definire l’essenza o la finalità ultima del «bene», ma anche e soprattutto di comprendere se esso sia esclusivamente individuale o altresì abbia una dimensione comune. Nessuna concreta realtà di ogni convivenza sociale, economica e politica, può infatti rinunciare a una seria e condivisa riflessione su tale concetto.
Ciò, a maggior ragione, vale nella travagliata stagione che stiamo attraversando. L’asprezza della crisi economico-finanziaria mondiale, la ruvidità delle relazioni politiche nell’Unione europea, l’inestricabilità del dis-ordine in Medio Oriente (in particolare, in Egitto e Siria), sono tutti segni attraverso cui sentiamo l’urto della realtà e che aprono alcuni urgenti interrogativi: il bene-essere individuale è sufficiente? Può esistere un bene che sia per tutti, ma non per ciascuno? Oppure può il bene di ciascuno non essere per tutti?
Nel tentativo di rispondere a queste domande, appare subito evidente il fatto che esse riguardano due distinti, ma complementari aspetti.
Il primo richiama alla nostra concezione della natura umana. Il confronto principale, in questo caso, è tra una antropologia positiva e una antropologia negativa. Per la tradizione aristotelico-tomista, gli esseri umani sono creati da Dio non perché vivano isolati, ma affinché essi costituiscano delle unità sociali. Pertanto, proprio per la natura sociale dell’esistenza umana, il bene di ciascuna persona risulta interconnesso con il bene dell’intera comunità. Come osserva San Tommaso d’Aquino, l’uomo appartiene alla società, ne è pienamente «parte». Per l’autore della Somma teologica, il bene comune non è inteso in termini esclusivamente economici o di stabilità politica, ma coinvolge tutta la persona e il suo bene vivere. Esso è sempre e inesorabilmente sociale. Al contrario, coloro che – come il filosofo inglese Thomas Hobbes – sostengono la dimensione ferina della natura umana, sono costretti a concepire il bene soltanto in una dimensione individuale o a spiegare quello della collettività – ed è il caso dei presupposti della concezione utilitarista – come una semplice somma aritmetica del benessere e dei vantaggi dei singoli, con l’ovvia conseguenza che alcune persone o ampie fasce della popolazione possono essere escluse dalla condivisione del bene.
Il secondo aspetto, strettamente intrecciato con la peculiarità della visione antropologica adottata, è quello che riguarda la politica e il potere politico. Nel pensiero politico moderno, in netta controtendenza con la tradizione classica e quella cristiana, il concetto di «bene comune» tende a essere emarginato, quando totalmente non rimosso, in favore di quello «individuale». Dal momento che non risulta più utile come elemento di legittimazione, viene destinato all’oblio. Con Hobbes, più ancora che con Machiavelli, la politica e l’ideale morale vengono dichiarati inconciliabili e scissi definitivamente. Il «bene comune», pertanto, inizia ad essere concepito – nelle sue sempre più rare apparizione – in maniera errato o riduttiva. Jean-Jacques Rousseau, per esempio, lo interpreta come una limitazione dei diritti individuali, sancendo una coincidenza fra volontà dello Stato e volontà generale. «Per aver veramente l’espressione della volontà generale», afferma il filosofo francese, occorre «che non vi siano società parziali nello Stato, e che ogni cittadino non pensi che colla sua testa».
Per molti versi, quella espressa dall’autore del Contratto sociale è la medesima visione dei sistemi politici contemporanei. Intrappolate nella ormai obsoleta dicotomia Stato-mercato, la maggior parte delle unità politiche organizzate fa notevole fatica a comprendere la ricchezza dei corpi intermedi e la forza propulsiva del principio di sussidiarietà, di fatto forzosamente rinunciando a valorizzare quell’«istinto della costruzione» dal basso che Luigi Einaudi – nelle sue Lezioni di politica sociale del 1949 – indicava come punto fondamentale della creatività sociale.
Invece, come osserva Giuseppe De Rita, è soltanto riaffermando la «centralità dell’uomo» nella sua naturale dimensione sociale che è possibile ritornare a una politica intesa come servizio (officium) e, al tempo stesso, rifuggire dallo statalismo e dal liberalismo selvaggio. Di fronte alle grandi trasformazioni in atto sia nel sistema internazionale, sia tra le istituzioni politiche e la società all’interno di ogni democrazia, occorre ridare valore al concetto di «bene comune». Quest’ultimo, infatti, può contribuire a risolvere i molti problemi non solo con riferimento alle aspettative sociali della persona, delle famiglie e dei gruppi nei sempre meno sostenibili sistemi di welfare, ma anche in ordine all’azione di ciascuno Stato nella comunità globale.