Per parlare di laicità dello Stato occorre sempre sgombrare il campo da due “lamenti speculari”, in modo che il dialogo non diventi un rinfacciarsi reciprocamente supremazie indebite.
In primo luogo è bene precisare che non viviamo in una società naturaliter cristiana ed egemonizzata dalla Chiesa, ma in una società ampiamente secolarizzata. Si divorzia, si abortisce, si fanno figli in provetta, si fa il testamento biologico.
Non esistono leggi “cattoliche” su tali questioni, ma leggi dello Stato che sono frutto di un compromesso, come è nella natura della politica. Senza questa precisazione si arriva al paradosso di esser convinti che a difendere leggi come la 40 e la 194 siano i cattolici, che certo non vi vedono riflessa la loro dottrina.
Il pensiero laico, dal canto suo, non si lamenti: è in pieno mainstream, il vento della storia sta soffiando nelle sue vele.
D’altra parte, l’elemento clericale è sempre presente come tentazione nel mondo cattolico. Mi auguro che questo mondo dimentichi la tentazione delle scorciatoie legislative, e/o di potere, per surrogare decenni di incomprensione del metodo cristiano della presenza, della sua dimensione culturale. Un atteggiamento, questo, che l’ha ridotto al richiamo moralistico e alla gestione del potere («basta che mettiamo lì uno dei nostri»): i frutti di questa mentalità si vedono soprattutto nella difficoltà di impostare un sistema di vera libertà di educazione dopo un regno quasi ininterrotto di ministri democristiani alla Pubblica istruzione.
Ciononostante il vero pericolo “clericale” che vedo in giro, come mentalità diffusa, come vulgata, come facili slogan che fanno i titoli dei giornali e dei TG, è quello del clericalismo laico, il clerico-laicismo. A ogni frusciar di sottana, a ogni dichiarazione di prelato, scatta l’allarme “ingerenza”, l’“attentato alla laicità dello Stato”, tranne quando il vescovo di turno parla di “solidarietà” o di “sobrietà”. I diritti universali valgono anche per i battezzati. Siamo tutti esseri umani, e in questo senso siamo tutti laici.
Un dialogo ha sempre delle condizioni, e la prima mi sembra questa: laici sono tutti gli uomini in quanto impegnati, nel lavoro del mondo, a prendere coscienza della realtà, del proprio destino e del senso del vivere insieme. Fra cristiani e non cristiani ci si distingue sulla risposta a questo impegno, non nel riconoscimento della sua inevitabilità.
Al di sotto di questo livello comune la politica – ma non solo la politica, tutta la vita relazionale, sociale, economica – è solo lotta per il potere, nella quale tutto è giustificato (come la storia del ’900 dimostra).
Si capisce allora che la laicità non può coincidere con l’indifferenza al problema umano. Quello della “neutralità” è un falso ideologico, il mascheramento linguistico di una precisa posizione.
In che senso, allora, lo Stato è laico?
Per capire un’entità razionalmente, senza idolatrarla, è utile chiedersi a che cosa serva, quale sia il suo scopo e, quindi, il suo dovere. E dovere dello Stato non è difendere se stesso, ma difendere l’innata dignità di ogni uomo e donna, difendere la propria popolazione quando viene minata nei suoi diritti; quindi difendere se stesso in quanto realizzatore di questi scopi.
In caso contrario ha ragione sant’Agostino quando afferma che «gli stati sono bande di predoni e di ladri. Non l’affermazione di un potere, ma il prepotere, la prepotenza».
Non vedo altro scopo della legge se non quello di ordinare la vita comunitaria a questo dovere di giustizia: dare a ciascuno il suo. Altrimenti la legge diventa idolo e si sostituisce la giustizia con la legalità si affida la guida del Paese ai tribunali, che diventano il nuovo luogo del riconoscimento e dell’affermazione dei diritti, espropriando così di questa funzione i rappresentanti del popolo.
Invito dunque a riflettere su quanto la vera laicità dello Stato risieda non nell’indifferenza e neutralità rispetto alle posizioni culturali in esso presenti e che lo rendono vivo, ma nell’equilibrio dei poteri, elemento che in Italia ci siamo dimenticati dal 1992. Può, ad esempio, un tribunale, per quanto alto, ridefinire il concetto di salute relegandolo alla sola sfera del diritto individuale e dimenticando che la salute è anche “interesse della collettività”, principio sancito dall’articolo 32 della nostra Costituzione? Si pensi a cosa può voler significare una simile dimenticanza nei rapporti privati di lavoro riguardo alla sicurezza, o nel caso del mercato degli organi.
Il concetto di autodeterminazione non regge alla prova della vita (come ci dimostra tragicamente il terremoto in Abruzzo) e meno che mai a quella della vita associata. C’è dunque una norma “data” che nessuno possiede (neanche i cattolici) e che va scoperta insieme. Questo è il senso del dialogo, questo il senso della storia, come ben spiegava Benedetto XVI, nel mancato discorso della Sapienza, parlando del compito di ogni generazione.
Che cosa c’entra la Chiesa in tutto questo?
C’entra storicamente, perché è alla base di una simile concezione della persona, di una tale concezione dei diritti umani e di questa concezione della laicità dello Stato. Sebbene la stessa Chiesa abbia tradito tale concezione in innumerevoli occasioni come sa perfettamente Benedetto XVI, che parla di “sporcizia e purificazione”, e ha saputo Giovanni Paolo II fino alle richieste pubbliche di perdono.
Vale la pena, a proposito del rapporto Chiesa democrazia, citare Tocqueville: «Credo sia un errore considerare la religione cattolica come un nemico culturale della democrazia. Mi sembra invece che il cattolicesimo sia una delle confessioni più favorevoli all’eguaglianza delle condizioni. I cattolici lasciano la verità politica, e credono che questo sia il volere di Dio, alle libere ricerche degli uomini. Sono al tempo stesso i fedeli più sottomessi e i cittadini più indipendenti». E Dio sa quanto oggi ci sia bisogno di persone indipendenti.
Se la vera misura della politica è la giustizia, la politica allora non è pura tecnica. Ed è su questo terreno, quello della risposta alla domanda: «come si fa a costruire una società giusta?», che fede e politica si incontrano. E lo fanno sul terreno del “ragionevole”. Lo riconosce un filosofo non propriamente credente come John Rawls, citato dal Papa sempre nel mancato discorso della Sapienza: «Rawls vede un criterio di questa ragionevolezza tra l’altro nel fatto che simili dottrine religiose derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina… Di fronte a una ragione a-storica che cerca di autocostituirsi soltanto in razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee».
A Rawls si aggiunge Habermas: «Il cristianesimo, e nient’altro, è l’ultimo baluardo della libertà, della coscienza dei diritti umani e della democrazia. Continuiamo ad abbeverarci a questa fonte. Tutto il resto non sono che chiacchiere post-moderne».
Può, realisticamente, chi governa un Paese occidentale non considerare il portato di ricchezza sapienziale, umana, esperienziale, di diritto, di solidarietà, di equilibrio, di cultura e di arte nato e progredito nella presenza della Chiesa come istituzione e come realtà popolare?
Quello della Chiesa non è quindi di un contributo dogmatico, ma un contributo di esperienza.
E, per dirla con Guitton, «ragionevolezza è sottomettere la ragione all’esperienza. Storicamente quello della Chiesa è un contributo alla ricerca razionale della soluzione dei problemi nella quale si sostanzia l’agire politico».
È qui che giunge tutto il discorso e l’accanirsi intorno alle radici giudaico-cristiane della nostra cultura e dell’Europa, riconoscimento che dovrebbe essere la presa d’atto di un fatto storico, un gesto eminentemente laico.
Una radice vive se può crescere l’albero che essa genera, altrimenti il riconoscimento è formale e sterile: un fatto museale. Il fattore religioso può essere utile alla vita pubblica e allo Stato se non è confinato nel privato. L’ethos pubblico, come ha ben spiegato la professoressa Marta Cartabia, ha bisogno di luoghi dove le virtù possano essere praticate, più che ricordate come principi. Non i “valori”, ma la possibilità della presenza reale della Chiesa come fatto popolare, culturale, sociale è sintomo della laicità dello Stato. In questo senso si capisce e si apprezza il Cavour della “libera Chiesa in libero Stato”.
Non è un privilegio che la Chiesa chiede per sé, ma un test della libertà. Si può dire che esiste libertà religiosa se la realtà che maggiormente esprime questa istanza è impedita, ostacolata o irrisa violentemente per la sua presenza pubblica?
È in fondo la tradizione del liberalismo americano – come nota sempre la professoressa Cartabia: «si valorizzano realtà comunitarie presenti nella società dove si sperimentano “forme di vita nuova” (McIntyre). È una garanzia di liberta di tutti. È, insomma, l’applicazione del principio di sussidiarietà».
Uno Stato è laico se non è autoreferente, se vive del principio di sussidiarietà.
Non abbiamo altra strada che il diaologo, e lo dico appoggiandomi sulle affermazioni di due personaggi che non potrebbero esser più lontani tra loro.
Dice Voltaire: «Non condivido i tuoi pensieri, ma sono pronto a dare a dare la vita perché tu possa esprimerli». Sono parole molto più cristiane di quanto sembri, descrivono la passione di Cristo per la libertà dell’uomo.
«Provate a vivere non etsi Deus non daretur, ma come se Dio esistesse» ha detto Joseph Ratzinger in uno degli ultimi discorsi prima di diventare Papa. È una frase “laicissima”, perché non pone un dogma ma lancia un’ipotesi, tutta da verificare dalla ragione, dalla libertà e dal dialogo.