Nulla di inatteso nell’ipotesi di accordo sul nuovo contratto scuola, sottoscritto fra le parti il 9 febbraio, sotto il profilo economico. Rispetto alle cifre indicate nell’atto d’indirizzo del novembre scorso, gli aumenti medi sono anzi cresciuti, seppure in misura modesta (brutte notizie invece sugli arretrati, che, per gli anni 2016-17, sono stati calcolati con un coefficiente più basso: in busta paga, al netto, gli insegnanti più anziani riceveranno un rimborso non superiore ai 350 euro).
Il dato politicamente importante del contratto e, benché prevedibile, nient’affatto scontato, sta altrove. Certo non riguarda gli oneri della funzione docente, tema su cui nelle settimane precedenti la firma è stata sollevata un’abile cortina fumogena — non è chiaro se dall’amministrazione, dai sindacati o da entrambe le parti. Tanto meno si è messo mano allo stato giuridico degli insegnanti, questione peraltro intorno alla quale il contratto, da decenni, surroga irritualmente (e forse anche illegalmente) il legislatore, con l’acquiescenza silente di quest’ultimo, e sul quale l’accordo appena siglato non porta alcuna novità.
Il vero nodo di questo contratto è la riscrittura delle relazioni sindacali. Il significato di questa svolta non si esaurisce certo nei confini del “settore”: la sua portata simbolica, e quindi politica, investe direttamente una questione di carattere generale e strategico: chi decide cosa nel rapporto tra governo, parlamento e sindacati nell’ambito della pubblica amministrazione.
Ma che dice di nuovo il contratto, sul tema? E soprattutto, “nuovo” rispetto a cosa? Confrontato con il precedente regime pattizio, quello attuale si segnala anzitutto per un allargamento vistoso della concertazione (art. 9). A livello nazionale, con la creazione di un organismo paritetico, si delega potere propositivo e interdittivo alle parti su una materia come l’innovazione organizzativa, che, fatti salvi i vincoli contrattuali, dovrebbe essere spettanza esclusiva dell’amministrazione.
A questa prima abdicazione fa eco la seconda, questa volta sul terreno dei singoli istituti. Vengono infatti ingessate in un triplice livello (informazione, confronto, contrattazione) le relazioni fra dirigente e Rsu, vincolando il primo ad una defatigante interlocuzione, anche su temi, come la proposta di formazione delle classi e degli organici o i criteri di attuazione dei progetti europei, sui quali, viceversa, sarebbe da valutare l’autonomia della sua responsabilità gestionale e, casomai, dovrebbero esercitare diritti di indirizzo il collegio e i suoi organi delegati. Risulta inoltre assai curioso che le risorse destinate alla formazione dei docenti (che peraltro torna ad essere un diritto e non un obbligo, in barba alla legge), sul cui programma annuale delibera il collegio, rientrino nella quota affidata alla contrattazione decentrata, attribuendo alle Rsu un potere concertativo del tutto ultroneo rispetto ai corretti confini della rappresentanza sindacale.
Discorso a parte richiede poi la questione del bonus premiale per gli insegnanti. Si possono avere opinioni molto critiche nei confronti sia del merit pay in generale, sia della sua versione italiana bonoscolare. Tuttavia, piaccia o meno, si tratta di una legge votata dal Parlamento della Repubblica. E, francamente, non è un segno di grande civiltà politica (e nemmeno sindacale) quando leader di prima fila dei confederali si vantano di avere “inferto un altro duro colpo alla legge 107 e alla filosofia che la sostiene” (così Sinopoli della Cgil, Gissi della Cisl e Turi della Uil scuola, in un comunicato congiunto a contratto siglato). Che cosa è successo?
È successo che “i criteri generali per la determinazione dei compensi finalizzati alla valorizzazione del personale, ivi compresi quelli riconosciuti al personale docente ai sensi dell’art. 1, comma 127, della legge n. 107/2015”, cioè la quantificazione del bonus, sono materia riservata alla contrattazione. Ora, la legge 107 affida al comitato di valutazione il compito di indicare al dirigente i criteri cui dovrà attenersi nella scelta dei docenti annualmente meritevoli; con un bizantinismo tutto nostrano, il contratto sottrae al comitato la facoltà di stabilire il quantum dei compensi, rendendo quest’ultimo oggetto negoziale di un altro organismo, il tavolo dirigente-Rsu. Di là dal contenzioso che si profila a causa della incongruità delle due fonti normative, lo splitting dell’atto di indirizzo fra parte qualitativa (a chi e in base a cosa) e quantitativa (quanto) del bonus renderà inapplicabile la sua effettiva allocazione, se non in forma di distribuzione a pioggia. Ne risulterà in tal modo vanificato il senso e sterilizzato l’elemento pur timidamente innovativo che la 107 aveva introdotto, non foss’altro come principio — ossia che la scuola non è una notte in cui tutte le vacche sono nere, che il merito e l’impegno vanno riconosciuti.
Invece ha vinto, ha stravinto il principio livellatorio del todos caballeros. I sindacati hanno ragione a festeggiare. A chi pensava che fosse il Parlamento a varare le riforme, Annamaria Furlan, segretario generale della Cisl, ricorda che “con i contratti e non con le leggi calate dall’alto si riformano la scuola e la pubblica amministrazione” (come se poi il contratto fosse stato firmato dal basso…).
Una iattanza sindacatocentrica che sa tanto di revanche, di “tranquilli ragazzi, siamo tornati”. Disintermediazione, addio.