Con la conclusione dei Giochi del Commonwealth tenutisi in queste settimane a Glasgow, una sorta di Olimpiade dei paesi dell’ex impero britannico, la Scozia può ora tornare a concentrarsi interamente sull’evento politico dell’anno: il referendum per l’indipendenza dal Regno Unito. Il referendum, atteso da anni dagli indipendentisti, avrà luogo il 18 settembre.
Manca quindi poco più di un mese, e la campagna tra i sostenitori dell’indipendenza e i fautori del mantenimento dello statu quo entra ora nel vivo, e la battaglia si svolge senza esclusioni di colpi. Ma facciamo un passo indietro: come si è arrivati a questo referendum? Nelle elezioni del 2011 lo Snp, il partito indipendentista scozzese, raggiunse la maggioranza assoluta sul territorio scozzese, e dal momento che il programma politico del partito prevede non solo l’autonomia, ma la piena indipendenza, i vertici della formazione nazionalista – guidata da anni dal leader tranquillo Alex Salmond, una figura tutt’altro che populista – decisero che era tempo di tentare il colpo grosso, quello di un referendum che ponesse come quesito l’indipendenza di questa antica nazione europea, per secoli libera e sovrana fino all’assorbimento all’interno di un unico stato britannico, avvenuto tre secoli fa, nel 1707. Dopo molte incertezze, fu scelto per celebrare il referendum un anno, il 2014, dal forte significato simbolico.
Nel 1314 infatti, settecento anni fa, la Scozia combattè la battaglia decisiva per la sua libertà. Re Robert Bruce, che dopo la morte tragica dell’eroe William Wallace aveva rialzato da terra la bandiera della libertà, affrontò sul campo di battaglia di Bannockburn, nei pressi di Stirling, il mastodontico esercito inglese guidato dallo stesso sovrano, Edoardo Plantageneto. In quel giugno di 700 anni fa un esercito di patrioti scozzesi infiammati dal ricordo di Wallace, formato da contadini e pastori diventati guerrieri, si guadagnò il diritto a vivere da uomini liberi sulla propria terra. Lo scorso 28 giugno a Bannockburn si è tenuta la consueta celebrazione della battaglia, che ha visto quest’anno un numero di presenze straordinarie.
Lo stesso giorno, a pochi chilometri, nella città di Stirling, il governo britannico aveva deciso – come atto di sfida agli indipendentisti – di celebrare la giornata nazionale delle forze armate. I reggimenti della gloriosa Royal Air Force, della mitica Royal Navy, e i reggimenti scozzesi con le cornamuse e i tamburi hanno sfilato per le strade di Stirling ricordando ai presenti l’antica grandezza dell’impero britannico, quando l’Union Jack sventolava dalla Giamaica all’India e l’impero garantiva ai suoi sudditi benessere, prosperità, e il fardello dell’uomo bianco.
Una retorica bolsa, aggiornata dalla presenza degli ultimi ritrovati della tecnologia bellica e dai depliant informativi sulle attività attuali del British Army nei vari focolai di conflitto in atto nel mondo, ma che il governo di Londra pensava potesse essere un efficace contrappunto alla rievocazione dei settecento anni di Bannockburn, quando un esercito inglese di 100mila uomini fu rimandato “a casa a ripensarci”, come dice l’inno nazionale ufficioso della Scozia. Ma l’enorme, pacifico, festante, concorso di popolo nella piana di Bannockburn ha dato un segnale molto più forte e significativo.
Un esito scontato, quello del 18 settembre? Tutt’altro. Le questioni in gioco nel referendum vanno ben oltre una visione romantica della riconquista dell’indipendenza dopo secoli di dominio britannico. La storia della Scozia è ben diversa da quella − ad esempio − dell’Irlanda.
La Scozia perse la libertà nel 1707 perché la sua classe dirigente, aristocratici, grandi proprietari terrieri, grandi commercianti, decise che sarebbe stato più proficuo entrare a far parte di un’unione politica con l’Inghilterra, che avrebbe preso il nome di Gran Bretagna. Una grande avventura finanziaria e commerciale. Un Parlamento di Edimburgo corrotto dai soldi inglesi svendette la propria sovranità in cambio di vantaggi economici per una piccolissima élite di privilegiati e a detrimento del popolo. Quel popolo che insorse due volte, nel 1715 e nel 1745, cercando di riottenere la libertà, combattendo per l’antica dinastia nelle cui vene scorreva ancora un po’ del sangue di Robert Bruce, gli Stuart.
Schiacciate nel sangue queste insurrezioni, la Scozia venne annientata. Gli irriducibili Highlanders, in gran parte cattolici, vennero deportati a migliaia in Canada, in America, in Oceania. Le terre dei clan vennero espropriate e finirono nelle mani di avidi possidenti. Una terra antica e orgogliosa della propria identità divenne solo una provincia dell’Impero. Ogni anelito di libertà si spense: il popolo, fatto in maggioranza di poveri, era troppo impegnato nella lotta per la sopravvivenza, mentre i ricchi erano impegnati ad accrescere il loro potere in totale subordinazione ai disegni egemonici di Londra.
Edimburgo e Glasgow ebbero la loro parte nel godere dei successi economici e militari dell’800, dell’era Vittoriana, con costi sociali spaventosi. Glasgow divenne un polo industriale − acciaio e carbone − con condizioni invivibili per la sua popolazione. All’antica fierezza celtica si trovò uno sfogo incanalando centinaia di migliaia di uomini al servizio nelle forze armate.
Era un’alternativa alla disoccupazione, all’emigrazione, o al lavoro in una miniera. I reparti scozzesi potevano indossare il kilt e andare all’assalto al suono delle cornamuse. Ma non per la loro terra, per la loro nazione: morirono in ogni guerra del ‘900, in ogni lembo della terra, per la maggior gloria dell’impero britannico. E intanto in patria imperversava la povertà, resa più amara dal settarismo, una delle piaghe nascoste della Scozia: l’odio verso i cattolici, in particolare. Quella comunità cattolica che nel corso del tempo era stata rinforzata dall’arrivo di poveri immigrati irlandesi venuti a fare i lavori più umili e ingrati. Oggi un discendente di questi immigrati, Stephen Noon, è uno dei leader del partito indipendentista.
E veniamo dunque ai partiti che si giocano questo scontro decisivo: lo Scottish National Party è il soggetto principale del fronte del “Yes”. Chi pensi ad una formazione sciovinista, magari xenofoba, secondo gli stereotipi con cui in Italia si pensa ad un movimento autonomista e indipendentista, sbaglia di grosso. Uno sbaglio giustificato in parte dal fatto che l’immagine che in Italia si ha dell’autonomismo è quello dato dalla Lega fondata da Umberto Bossi. Anni fa, ai tempi della devolution, ci furono da parte della Lega degli entusiastici approcci agli indipendentisti scozzesi, nettamente respinti dallo Snp. La formazione scozzese è infatti fortemente impegnata sul terreno della giustizia sociale e dei diritti umani. Respinge ogni tipo di xenofobia e razzismo.
È pacifista, e nel suo programma elettorale c’è una decisa scelta di disimpegno militare, di incentivo alle energie alternative, ad una economia attenta alla popolazione più debole. Insomma, si potrebbe tranquillamente definire più progressista (almeno sul piano sociale) rispetto al New Labour, il partito laburista per come è uscito dalle mani di Blair e del “blairismo”. Un partito laburista che è sempre stato, per motivi che il lettore ora ha compreso, la prima formazione in Scozia. Ma i laburisti hanno tradito le aspettative del popolo scozzese, che guarda ora con speranza all’indipendentismo.
Per quanto riguarda i Conservatori, nella vecchia Caledonia essi hanno sempre rappresentato l’ideale dell’Unionismo: continuare a stare con Londra per beneficiare dei privilegi della City e della Banca d’Inghilterra.
Per concludere: nel referendum non è in gioco solo una questione di identità, di storia, di folklore. Gli scozzesi hanno da tempo queste libertà. Hanno nel calcio e nel rugby le loro squadre da tifare, hanno i loro usi e costumi. Nessuno impedisce da tempo l’uso del kilt, il suono delle cornamuse, il bere whisky, come era accaduto in passato. Con il referendum si sceglierà se seguire una propria visione economica, che assetto dare allo Stato e alla cittadinanza. Non è un caso che contro l’indipendenza siano schierati i poteri “forti”, che sono tali soltanto in un’ottica unionista, sostenuti da Westminster: la Bank of Scotland, gli speculatori, le grandi famiglie che controllano l’economia.
La Scozia, con l’indipendenza, potrebbe diventare una grande democrazia avanzata, dall’elevatissimo tasso di benessere, ma anche solidale, pacifica, tollerante. Un vero e proprio modello. Westminster farà di tutto per impedirlo: non vuole e non può permettere un modello economico e finanziario alternativo al suo; non vuole una politica estera scozzese anti-imperiale e non interventista; non vuole un nuovo welfare che contraddirebbe i principi del neoliberismo selvaggio. Da qui ad un mese tenterà in tutti i modi di spaventare gli scozzesi paventando i rischi economici dell’indipendenza. La battaglia sarà durissima, e occorrerà che gli scozzesi siano davvero dei cuori impavidi, e delle menti libere.