Può un autore diventare un amico, un compagno di dialogo, un esempio o un contro esempio? Da questo punto di vista, Foscolo è un compagno di viaggio fuori dal comune. A 17 anni aveva scritto una tragedia importante rappresentata a Venezia, non l’ultima delle città di allora; a 25 aveva già scritto l’Ortis e i Sonetti che gli avevano conquistato un posto all’interno dei classici della letteratura italiana; a 28 anni aveva composto I sepolcri dimostrando la maturità umana e artistica che spesso non si acquisisce in una vita; a 35 aveva finito di scrivere le parti essenziali dell’incompiuto poema Le grazie. Solo che, a 35 anni, aveva anche esaurito la vena creativa. Morì nel 1827, a 49 anni, ma negli ultimi 15 anni non scrisse che opere di critica letteraria. Non me ne vogliano i critici – alla cui categoria appartengo per lo più – ma fare della critica o della letteratura, come qualsiasi arte, non è la stessa cosa. “Non fate della critica. Fate della pittura, la salvezza sta in questo” diceva Cézanne al suo amico Volard, e aveva ragione.
Foscolo però, eccezionalmente dotato, aveva smesso di dipingere i suoi quadri letterari a 35 anni. All’età in cui la maggior parte degli altri incomincia, Foscolo aveva già finito. Perché aveva perso la creatività? È una buona domanda per un giovane (di qualsiasi età) perché perdere la creatività vuol dire perdere la gioventù e il godimento del cervello.
Che cosa gli era successo? Da giovane ardente qual era aveva pensato, e poi anche teorizzato – nella bellissima prolusione universitaria di Pavia – che gli ideali dovessero e potessero essere reali. Sono più reali l’amore e l’onore del cibo e dell’umore. La nostra mente coglie la realtà di ideali che vengono da lontano, dalla tradizione, e può collaborare alla costruzione di questa realtà attraverso la politica, l’arte, la religione. Per questo Foscolo poteva dire che essa “crea le deità del bello, del vero, del giusto, e le adora” e che essa ci dice “Tu passeggerai sovra le stelle”.
Qui nasce la domanda. Le nostre creazioni, siano esse politiche, artistiche o religiose, sono una collaborazione alla realtà degli ideali, uno sviluppo di essi, o sono mere illusioni che coprono la tragedia dell’insensatezza della vita?
Foscolo rimase creativo fino a quando pensò che quegli ideali fossero reali; e che le nostre creazioni fossero “illusioni” solo nel senso di essere raffigurazioni provvisorie create da noi uomini. Parziali, ma non false; frutti di una lunga tradizione, ma non ideologie. Poi incominciò a capire che gli altri, i suoi amici, non vi credevano e non vi obbedivano anche quando le proclamavano, e da qui nacque la sua ammirazione per il passato. Ma poi, peggio ancora, si rese conto che egli stesso, che bramava una vita tutta creativa, tutta ideale, tutta riempita di gesti grandi e nobili, si accontentava di vivere nel suo mondo che trasformava l’amore in sesso e pettegolezzo, la bellezza in moda, la giustizia in opportunità. Deluso di se stesso, pensò che gli ideali non fossero reali, che fossero falsi anch’essi.
Ma quando si naturalizzano del tutto gli ideali, quando si pensa che non ci sia nulla di buono, di vero e di giusto per cui valga la pena vivere, la creatività e la gioventù si spengono, l’epigramma sarcastico vince sulla poesia, la critica prende il posto del romanzo. La solitudine finale è l’esito di questa perdita: grande era l’anima di Foscolo, ma non è dato all’uomo essere grande da solo. Soltanto in un grande amore diventa se stesso. E più è grande il dialogo d’amore che vive, più è presente una fonte di creatività che è altro da sé, più gli ideali sono alti e veri – anche quando non si riesce a viverli – più egli diventa grande in razionalità, cioè in poesia.