Ricordate Lalla Romano, Le parole tra noi leggere? Quel figlio pessimo ginnasiale che le riempiva la casa di pezzi di ferro, ammucchiati su un bancone per fini alla madre incomprensibili? Ebbene, siamo ancora lì, e chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Conclusa anche per quest’anno la liturgia delle iscrizioni alle scuole superiori, invero con qualche sgradevole strascico di ragazzi rimasti esclusi dalla scuola prescelta in omaggio ad istanze di razionalizzazione del servizio, possiamo fermarci a riflettere. La scuola media fornisce il suo giudizio orientativo, gli insegnanti non lesinano consigli a chi li richieda. Tuttavia il parere degli insegnanti di scuola media rimane spesso inascoltato. Nemmeno si può contare, nella maggior parte dei casi, su chiare intenzioni espresse dai ragazzi, come se da tanti anni di scuola, da tante discipline affrontate non fossero emerse inclinazioni e desideri, neppure una traccia di introspezione consapevole, un’ombra di prospettiva per la propria vita. E così, alla serrata, salutare dialettica tra le aspirazioni, magari confuse, del ragazzo, l’oggettività dei risultati scolastici che di qualche propensione dovrebbero parlare, le opinioni variamente motivate ma comunque amorevoli dei genitori viene a mancare un attore fondamentale, il ragazzo appunto.
Sui motivi per cui la scuola media inferiore fatichi tanto ad orientare in senso pieno, stenti cioè a produrre un minimo di autocoscienza positiva che porti a dire: “Io riesco bene a fare questo, mi piace e voglio continuare”, non bastano certo poche battute; ci si può però condolere dell’esito, per cui l’orientamento finisce per essere in negativo, per esclusione degli scogli che si sono rivelati insuperabili. In presenza di personalità diligenti, dedite al dovere e desiderose di approvazione (e qui si collocano soprattutto le ragazze) anche questo viene a mancare: “Consiglio orientativo: tutti i tipi di scuola”. Meccanismo letale che si ripete puntualmente, per un certo tipo di persone, anche alle superiori, dove viene rinforzato il comportamento dello studente “bravo in tutto”, che non si permette di trascurare qualcosa per dare il meglio di sé in qualcos’altro e lasciare che si profili una vocazione. Non si sta tessendo l’elogio dello studente negativamente definito “selettivo” per scioperataggine. Semplicemente ci si domanda se la selettività, invece che repressa e scoraggiata tout court, non dovrebbe essere piuttosto educata, sorvegliata certamente, ma anche custodita come la culla di possibili scelte consapevoli.
Tuttavia, il consiglio orientativo “Tutti i tipi di scuola” rende generalmente felici le famiglie, mentre lo stesso non si può dire per consigli recepiti come gravemente limitativi: “Istituto tecnico” o, Dio non voglia, “Scuola professionale”.
Perché? In parte certamente per quanto detto sopra: da genitori sentiamo, respiriamo, che quel consiglio non significa: “Questo ragazzo sarà felice, realizzato, utile a sé e agli altri indirizzandosi verso studi tecnici o verso l’apprendimento di un mestiere perché ha dimostrato di essere bravo in queste cose (diversamente da altri che non lo sono); che significa invece: “È duro d’intelletto e ha poca voglia di studiare, non può fare il liceo, deve rassegnarsi a un percorso che conduce a ruoli subalterni”.
Lasciamo stare il carattere irrealistico delle equazioni sottese a questo sentire: è fuor di dubbio che esse non colgono la realtà, il disastro è che gli italiani se ne accorgono, ancora una volta, in negativo − constatando il naufragio delle speranze di tanti giovani adatti a “tutti i tipi di scuola” − non in positivo, attraverso la valorizzazione economica e, soprattutto, il riconoscimento sociale dei mestieri e delle competenze tecniche: valorizzazione e riconoscimento che, già di faticosa conquista in passato, sono ora praticamente azzerati.
La cattiva coscienza di tutta una società rimorde dunque attraverso i volti apatici di tanti ragazzi convogliati volentes nolentes verso scuole alle cui capacità di aprire un futuro migliore vogliamo continuare a credere, con pervicace speranza; colpa e vergogna, bisogna dirlo, di chi nei decenni, prima che di quella delle scuole tecnico-professionali, della dignità del lavoro non si è curato.
E poi, è un mantra ossessivo, “le scuole tecniche e professionali devono essere collegate al territorio, alle sue esigenze e alle sue risorse lavorative”. Il territorio? Che ne sa del territorio il genitore medio che lavora a decine di chilometri di distanza? Che importa del territorio al genitore medio che da anni sente ripetere che “i giovani devono essere preparati a muoversi, ad andare dovunque ci sia il lavoro”? Che ne pensa, delle risorse del territorio, il medesimo genitore medio che intorno a sé vede solo capannoni vuoti, gru parcheggiate, negozi con la serranda abbassata?
Infine, dove si iscrivono tutti i figli dei professionisti, dei manager, degli imprenditori, dei benestanti in genere? Alle scuole professionali? Non risulta.
Ed eccoci all’ultimo punto, al “chi è senza peccato…” con quel che segue. Piuttosto che rinunciare, si parte in pellegrinaggio da un open day all’altro, alla ricerca di licei che promettano di non frapporre troppi ostacoli. Non ha aiutato il legislatore che con l’ultima riforma ha moltiplicato (o meglio, ha recepito nell’ordinamento) svariati licei “leggeri”, cioè non ingombranti gli “obiettivi formativi” tipici della “licealità” con materie notoriamente ostiche.
Non aiutano le singole scuole, inclini a coprire pudicamente le difficoltà sotto un diluvio di ampliamenti dell’offerta formativa (verificare quanti di questi “ampliamenti” sono “in più” e non “al posto di”). Non aiutano dirigenti troppo preoccupati di far sapere ai giornali come veglino insonni sulla composizione dei consigli di classe onde evitare che vi si accumulino insegnanti pericolosamente severi.
Un’altra cosa non aiuta. La convinzione diffusa che, sotto il profilo della correttezza e della civiltà dei comportamenti, l’ambiente dei licei sia migliore. È chiaro che si tratta di un luogo comune, tuttavia non si può negare che su questo punto sia naturale, anzi doveroso, che il genitore cerchi rassicurazioni. Tanto è vero che là dove queste ci sono, là dove un istituto dà prova di avere costruito un ambiente convincente sotto il profilo educativo, al quale insomma si possano affidare con ragionevole tranquillità anche adolescenti non a prova di bomba nella scelta dei modelli e delle amicizie, generalmente le iscrizioni gli rendono giustizia, anche indipendentemente da considerazioni più specificamente legate al corso di studi.
Il che conforta, ma solo a metà. Ci si domanda infatti che cosa si aspetti a dotare gli istituti tecnici e professionali di tutte le risorse di cui hanno bisogno (certamente maggiori di quelle che servono ai licei) per far fronte, oltre che a compiti istituzionali assai complessi, a quelli legati alla complessità sociale dell’utenza. Così da svolgere davvero i loro compiti nei confronti dell’utenza “difficile” e da non essere più “di seconda scelta” per nessuno.