Il Vangelo della XXV domenica del tempo ordinario, che racconta l’ennesimo annuncio da parte di Cristo della propria morte e resurrezione, entra nell’attualità di questi mesi con una portata davvero straordinaria. I discepoli, infatti, pur non avendo capito bene le parole del Maestro, iniziarono a discutere su chi avesse dovuto prendere il timone delle barca una volta che la dipartita di Gesù fosse realmente avvenuta. Sentiti questi discorsi, Cristo mostra agli Apostoli un bambino e dice a tutti che la morte e il dolore — ossia le circostanze della storia — non permetteranno mai al metodo di Dio di mutare: Egli ha scelto di essere presente nel tempo attraverso l’umano (anche di un bambino) e ha definito la fede come il riconoscimento, nella carne, di una Presenza che libera l’uomo e lo restituisce alla sua vera dignità.
Solo una Presenza, solo lo sguardo di Cristo, può ridestare l’umanità assopita degli uomini. Quando Cristo venne, all’epoca della Rivoluzione di Augusto, poche cose erano evidenti. Tra queste certamente non c’era il valore della vita umana, la dignità dell’esistenza e la connessione tra morale pubblica e morale privata. Ci si richiamava genericamente ai “costumi degli antichi”, si riteneva un valore “l’ospitalità” e si addebitava al patto matrimoniale una funzione sociale che non implicava né la fedeltà coniugale — sancita dalla legge, ma pedissequamente violata dalla consuetudine — né la parità dei contraenti, al punto che lo stesso matri munus in molte regioni si configurava come la cessione della potestà sulla donna dal pater familias al marito.
Com’è che tutto questo cambiò? Com’è che l’aborto smise di essere pratica ricorrente e l’eliminazione degli storpi adempimento comune? Com’è che l’educazione smise il costume ellenistico di trasmettersi talora attraverso le pratiche omosessuali e gli schiavi cominciarono a godere della stessa dignità dei padroni? Solo un sommovimento di uomini che, come scrivono gli scrittori coevi del I secolo, vivevano e si ponevano impulsore Chresto, riuscì a innescare un processo di secoli che portò alla cristianizzazione completa della società e ad un livello di civilizzazione mai conosciuto dall’Occidente prima di allora.
I cristiani avevano ben chiaro che solo la libertà poteva trasformare i propri persecutori in fratelli e la giustizia per loro consisteva nel fatto che tutti, attraverso lo sguardo di Cristo, avrebbero potuto diventare santi. Per questo molti, chiamati a rinnegare la propria fede o su denuncia pubblica o per decreto dell’Imperatore, non rinunciarono mai a identificare la loro stessa identità con il nome di Cristo. “Christianus sum” dicevano con umiltà i grandi martiri. E tutti rimanevano impressionati non dal sistema di valori che i cristiani promuovevano, ma dall’affetto verso Uno che per tutti doveva essere morto ma che, per quel gruppetto, continuava ad essere vivo e operante in mezzo a loro.
Anche oggi il mutare delle condizioni storiche induce qualcuno a pensare che si dovrebbe cambiare metodo, che si dovrebbe passare alla “dura battaglia” per difendere una civiltà che fu così cristiana da partorire la più grande generazione anti-cristiana che l’Europa abbia mai conosciuto. Perché, nell’epoca in cui tutte le leggi erano cristiane, ciò che venne a mancare fu proprio il cristianesimo, l’affetto per Cristo come la cosa “più cara della vita di un uomo”. Così il nostro tempo, benché molto diverso da quello dei primi secoli, ha ancora fame e bisogno non di sistemi così cristiani da rendere impossibile perfino il peccato, non di popoli che applichino “il cristianesimo”, ma di uomini e donne cristiane, conquistate dalla Bellezza disarmata di Cristo.
La stessa Bellezza che riposa nei tabernacoli di tutto il mondo e che, per farsi valere, non ho mai visto partecipare ad alcuna “riscossa culturale”. Ma ho sempre visto in silenziosa e operante attesa di un cuore che, incontrandola, tornasse nelle cose del mondo a dire “Io”. Che poi, se ci pensiamo bene, è proprio l’Io la più grande cattedrale che il nostro tempo può costruire. Un Io che ha chiaro, in forza di uno sguardo che lo ha trasformato radicalmente dal di dentro, che cosa vuole, a che cosa tiene e — soprattutto — dove veramente sita la sua più grande soddisfazione.
Oggi a mancarci non sono “le conseguenze del cristianesimo”, sono bensì i cristiani. Uomini affamati di vita che un giorno, “per grazia”, hanno davvero incontrato la Vita. Tipi così, senza alcun potere o cultura, sono capaci di tutto. Anche di rendere più umano il mondo, ossia di rendere a tutti evidente con la propria vita ciò che ormai sembra essere un privilegio per pochi: la possibilità di incontrare la realtà per quello che è.