Che vi sia una ciclica e crescente attenzione mediatica sui fenomeni di bullismo, è un dato che concerne, per quanto pertiene all’Italia, gli ultimi dieci anni. Le disposizioni ministeriali per arginare il fenomeno ne sono state l’attestazione formale; la divulgazione online di video virali ha sollecitato il senso di emergenza nel mondo adulto, e talvolta – purtroppo – una sorta di curiosità morbosa.
Di solito la retorica giornalistica tende a catturare i fenomeni psicosociali in modo acritico e unilaterale, e a questa distorsione non poteva sfuggire il bullismo. Per un verso, infatti, l’attenzione pubblica si concentra sulla variante telematica degli atti persecutori. Il cyber-bullismo è fonte di grande allarme sociale. Genitori e insegnanti lo percepiscono come indecifrabile e imprevedibile e, come i media stessi suggeriscono loro, ne attribuiscono la responsabilità espansiva all’impersonale colpevolezza dei social network. È vero che applicazioni come youtube o facebook forniscono ai bulli una maggiore capacità d’azione, ai gregari un più forte anonimato, e alle vittime un ancor superiore senso di isolamento. Ma andrebbe compreso, in realtà, che l’efficacia dell’atto persecutorio online trova la sua forza nelle drammatiche fragilità culturali del tessuto sociale.
Il cyber-bullismo non agisce infatti attraverso l’esercizio della violenza fisica o il furto di beni materiali. Ma lavora con grande velocità e potenza di impatto sulla reputazione della vittima. Come ha ben dimostrato il sociologo Vanni Codeluppi, siamo definitivamente entrati nella fase della “vetrinizzazione sociale”. Siamo cioè completamente coinvolti nella esibizione telematica di ciò che vorremmo essere. Nei nostri profili facebook o nei blog ceselliamo un collage di canzoni, frammenti di poesie, citazioni, fotografie, che delineano il nostro apparire. È un mercato dell’attenzione, dove noi mettiamo in vendita la nostra identità costruita (che non è priva di un rapporto strettissimo con la nostra identità reale, intendiamoci, non credo alla frattura tra reale e virtuale); i “clienti” sono le cerchie dei contatti, con diverso livello di importanza, e ci ripagano o “rinforzano”, con un I like o uno share.
Se è vero che ciascuna di queste forme di approvazione può generare in noi un senso di gratificazione, ma pure di dipendenza, come è recentemente in via di approfondimento scientifico, possiamo presumere che la divulgazione di qualcosa che leda la mia reputazione, o una forma di isolamento dal network, possa indurre meccanismi depressivi. La responsabilità però non è nel mezzo, ma nel quadro sociale in cui esso si colloca, dove la formazione globale della soggettività, cioè la struttura del carattere personale potenziata attraverso un solido percorso scolastico, è del tutto sacrificata, come inutile, inefficace, non fruibile nella vita pratica. Senza retorica, possiamo dire che la dimensione della reputazione, attraverso la Rete, ha prevaricato la cultura dell’apparire televisivo.
Siamo anzi molto oltre la difesa della propria immagine esteriore. Un attacco alla mia reputazione online diventa una forma di disgregazione del sé, che si è andato costruendo nel tempo attraverso un’edificazione del proprio profilo pubblico.
L’altro gioco delle responsabilità, a sua volta messo in moto dai media, ma talvolta anche dagli psicologi, è quello della chiave di lettura individualistica. In altri termini, il bullo è dipinto come un soggetto anomalo. Ci si sorprende se proviene da una famiglia agiata, lo si delinea con un profilo lombrosianamente ricondotto a elementi di aggressività innata, lo si trasforma, insomma, in un caso clinico. E anche questa è una distorsione che non ci aiuta. Alla luce delle ormai celebri ricerche di Milgram, Zimbardo e Bandura, ma recentemente anche dall’italiana Chiara Volpato, il fenomeno del bullismo può essere letto in modo chiaro soltanto nell’ambito di una riflessione articolata sulle dinamiche sociali. Non esiste un’epoca storica, per quel che ne sappiamo, priva di questi atteggiamenti persecutori, e non si dà gruppo umano che, posto in determinate condizioni, non avvii una rottura degli equilibri interpersonali, così come ha brillantemente dimostrato Zimbardo con la sua teoria dell’“effetto Lucifero”. A nulla serve evocare la metafora della “mela marcia”, mentre il problema è semmai ragionare sulle responsabilità “sistemiche”.
L’attenzione mediatica si è poi recentemente arricchita di un nuovo elemento, che potremmo definire, in qualche modo, “letterario”. Secondo un’inchiesta del New York Times siamo di fronte a una vera e propria esplosione editoriale di libri dedicati al bullismo. Si tratta di prodotti librari destinati a tutte le età: dagli album illustrati per i piccoli delle elementari, fino alle raffinate analisi riservate agli adulti. Nell’arco del 2012, i volumi in lingua inglese che tra le parole-chiave nella ricerca WorldCat sono rintracciabili digitando il termine “bullying”, sono stati ben 1.891, aumentati cioè di almeno 500 unità rispetto ai dieci anni precedenti. A ciò sono affiancate campagne di informazione e sensibilizzazione finanziate dagli stessi editori, per alimentare la consapevolezza su un problema molto sentito. O forse per innalzare il grado di allarme e incrementare i profitti sui propri prodotti editoriali. Ma quel che sorprende, in questa vasta letteratura, è l’emergere di una sorta di curioso voyeurismo: compaiono infatti operazioni narrative che mettono al centro della rappresentazione gli stessi bulli, i gregari, o gli adulti che assistono indifferenti ad azioni di bullismo. Si tratta di un’attenzione ambigua nei confronti della zona grigia, in forza di un facile coinvolgimento, o una potente suggestione. È il noir trascinato nel mondo adolescenziale, forse letterariamente accattivante, ma non privo di rischi emulativi.
La verità, come è giusto che sia, è che siamo di fronte a un fenomeno di notevole complessità e multifattorialità. Spiace, pertanto, che esso venga letto attraverso lenti univoche e spesso opache.