Si legge con gli occhi e una matita, dico sempre ai miei alunni. Almeno, io faccio così: se ci sono passaggi di un libro che ritengo importanti, allora comincio a sottolineare, a cerchiare, a scrivere accanto ai versi una parola, un rimando, un richiamo. Tanto più, alla fine della lettura, il libro è segnato, pasticciato, rovinato quasi dalla matita, tanto più avrà rivestito interesse per me e quindi meriterà di essere segnalato agli amici, ad altri lettori. La pietra di Osip Mandel’štam, che il poeta Gianfranco Lauretano ha tradotto e curato per le edizioni Il Saggiatore e che ho appena finito di leggere, ha adesso la sua buonissima dose di segni addosso.
Dunque è un libro importante, non solo perché si tratta della prima edizione integrale dell’opera che il poeta russo ha scritto e riscritto per quasi tutta la sua vita, non dunque soltanto perché ha un grande valore storico-critico, ma soprattutto perché è un libro necessario oggi, e non solo per la poesia, ma per la vita di oggi. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di fare questa dichiarazione, perché dovrebbe essere chiaro a tutti, soprattutto ai poeti, che ciò che è necessario alla poesia non è diverso da ciò che è necessario alla vita. Ma siccome purtroppo, in particolare nella poesia italiana, non è così, ecco l’immenso valore del libro di Mandel’štam: esso uscì nella sua prima edizione nel 1913, alla vigilia del conflitto mondiale, e in un periodo che vide il lento sgretolarsi della poesia russa dell’età d’argento e l’affermarsi delle poetiche avanguardistiche che si lasciavano alle spalle i grandi narratori e il simbolismo della poesia di Blok e Belyi.
All’istanza simbolista di una parola che rimanda ad un presunto Altrove, a una presunta iper-realtà che sta al di là della realtà, Mandel’štam e gli amici poeti con cui fondò l’acmeismo rispondono con una posizione molto realista: la parola ha il compito solido e chiaro di nominare le cose, tutte ugualmente importanti e inoltre ha il compito di mettere in comunicazione con i propri simili. Roba che non fa una grinza, roba assolutamente umanissima e condivisibile. Ma al di là dei proclami e dei manifesti, che spesso tradiscono le loro intenzioni, è possibile vedere nel libro di Mandel’štam il progressivo avvicinamento a questa coscienza, a questa consapevolezza nuova della parola.
Così – seguendo appunto i segni che ho lasciato nelle pagine del libro – alla pag. 53 assistiamo ad alcune sequenze di fatti che costruiscono una sorta di film, come se il poeta fosse un regista che lascia decidere agli occhi cosa seguire e cosa no. E che questa sia una risposta al simbolismo lo capiamo dieci, e anche venti pagine più avanti: il vero collegamento col mondo segreto, quello che la parola simbolista andava cercando trasformando la poesia in una sorta di religione, non è altro che il mondo.
Infatti, l’anima è appesa su un abisso maledetto. // Ma io amo il casinò sulle dune, / la larga visuale in una finestra nebbiosa/ e il sottile raggio su una tovaglia stropicciata.// E circondato dall’acqua verdastra,/ quando, come una rosa, il vino è nel cristallo,/ amo seguire il gabbiamo alato.
Perché il punto è proprio questo: che, come fa Mandel’štam guardando Notre Dame e le sue pietre, è dal peso cattivo che il Bello può essere creato. La pietra, insomma, non è che la parola nella sua durezza, nella sua adesione alle altre pietre nel tentativo di costruire un muro che nella sua solidità e consistenza diventa bellezza. È la parola concreta, singolare, è un dettaglio maniacale della realtà che costruisce la poesia: c’è, non me lo toglie nessuno dalla testa, un legame con il Pascoli. Come, si dirà, un legame con uno che fu simbolista pure lui? Sì, perché non c’è niente di più simbolico della realtà; sì, perché bisogna guardare persino al di là delle intenzioni dell’autore, per comprendere la sua poesia: la poesia di pag. 107 è una fotografia in movimento, una ripresa cinematografica tanto quanto certe poesie di Pascoli e forse non è un caso che poco più avanti nel libro compaia un testo dal titolo Cinematografo. Il poeta tira fuori in poche righe la trama, esercita la sua ironia, altro elemento che ai simbolisti un poco mancava, spiega le cose seguendo le immagini. E del resto farà così anche con alcuni libri, con il Dickens e il fiume della sua Londra, i suoi bambini sfortunati e fortunati.
Mandel’štam, insomma, non butta via niente, come si fa in cucina, come si fa nella poesia che fa i conti con la vita e che, come recita un altro suo testo a pag. 145, è figlia della poesia che viene prima di lei. Ciò che muove alla scrittura, ricorda infine ancora con ironia, altro non è che l’amore: cosa sarebbero gli uomini achei se non ci fosse Elena? E il mare, e Omero? L’amore muove tutto, dice il russo. L’amore che poi è il modo di stare davanti al mondo che sceglie per la sua parola poetica: precisa e necessaria, dice le cose perché le cose sono ciò che abbiamo di più importante, perché nella loro tenacia, nel loro esistere sono opposizione al non essere, al nulla, al vuoto. Le cose sono testimonianza dell’essere, da amare solo perché ci sono, esse e solo esse sono la materia di cui la poesia è fatta.
Ma proprio perché così singolare e tenace, ogni cosa – e ogni parola che la sa rinominare nella sua verità − può diventare legame, comunione tra me e i miei simili. Simbolo, quindi, nel senso più necessario del termine: questo mettere insieme, questa opera della vita che la poesia vera, come quella di Mandel’štam, tenta almeno di copiare.
Ecco perché questo libro è necessario alla vita: dice infatti che la vita, in quanto vita, è degna di essere vissuta; è necessario alla poesia perché dice che la vita, in quanto degna di essere vissuta, è degna di essere raccontata. Nel 1913 questa poesia lanciava la sua sfida a un mondo votato alla guerra e a una poesia votata alla ricerca di un Altrove che, invece, poteva essere trovato solo attraverso la carne, il particolare, il mondo concreto: ma non è ancora quello di cui abbiamo bisogno oggi?
Quello che colpisce in questo libro è l’immediata adesione alle cose e l’intensità dello sguardo. C’è un’accoglienza che oggi non conosciamo; c’è un’accoglienza delle cose che è il contrario della violenza ideologica con cui la realtà oggi è manipolata; c’è un lasciarsi percuotere dalla disposizione, dall’emergere delle cose più semplici come da quelle più grandi. Così l’atto che questa poesia compie per primo è l’ascolto e la parola che ne scaturisce si assume il compito di una custodia. Ascoltare e custodire non è un progetto, è un gesto compiuto con lo sguardo e con le mani, con una semplicità che si trasferisce in una lingua altrettanto ordinata, tutta tesa, però, non a descrivere didascalicamente, ma a immetterci nel flusso delle cose, a farci stare nella cattedrale che lentamente si compone intorno a noi. Tutta la poesia che non prende su di sé questo compito, che nega alla radice questo destino della parola e dell’uomo, è inutile e inessenziale.
La poesia contemporanea ha dunque ancora qualche debito nei confronti di Mandel’štam e di questo suo libro, come ha ben compreso Lauretano lavorandoci su per alcuni mesi e restituendoci una traduzione attenta e incisiva. Sono necessari occhi e matite, allora, per ascoltare, per imparare, per vivere e scrivere ancora.
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Osip Mandel’štam, “La Pietra”, traduzione e note di Gianfranco Lauretano, Il Saggiatore, 2014