È rimasto spiazzato chiunque fosse arrivato giovedì pomeriggio nell’aula magna dell’Università Cattolica di Milano pensando di assistere alla solita lectio magistralis. Al via dell’edizione 2015-2016 del concorso nazionale di filosofia per studenti delle superiori Romanae Disputationes (Rd), quattrocento tra studenti e docenti della scuola secondaria superiore ed altri duemila in videocollegamento da tutta Italia, invece, sono stati sorprendentemente provocati ad un lavoro di riflessione comune sul tema di quest’anno: “Unicuique suum. Radici, condizione ed espressioni della giustizia”.
Forse, a ben pensare, non poteva esserci inizio metodologicamente più adeguato per una realtà che, come le Rd dell’associazione ToKalOn, voglia innanzitutto far scoprire ai ragazzi la bellezza e l’attuale pertinenza del pensare filosofico e ad esso introdurli. E ciò è ancor più sorprendente se si pensa che ad aver rivolto questo invito è uno che con la giustizia e le sue applicazioni reali ci ha a che fare da tutta una vita. “Non pensate che io sappia che cos’è la giustizia. Noi non sappiamo, infatti, che cosa essa sia, eppure è altrettanto vero che non possiamo estirpare dalla nostra esistenza la prospettiva e l’esigenza di questa stessa giustizia”. Così ha aperto le danze Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, che non si è fermato, anzi ha continuato incalzante: “proprio per questo, noi siamo qui, innanzitutto non per dare una definizione esaustiva di giustizia, ma per elaborare idee, per contribuire a generare una discussione sul tema”. Può essere infatti felice un uomo a cui sia tolta la gioia del pensiero?
La proposta teoretica di Zagrebelsky si costruisce come risposta a due dilemmi distinti, ma non separati: cioè se la giustizia appartenga al campo di indagine della ragione o del sentimento e se è davvero una giustizia massima, e non piuttosto una giustizia minima, quella cui dobbiamo aspirare.
I suggerimenti e gli spunti certo non mancano in una relazione che, interessandosi di un argomento vastissimo, non teme di andare a toccare i punti salienti di pensatori del calibro di Kant, Kelsen, Rawls, dipanandosi lungo tutto l’arco della storia. L’unitarietà, e quindi l’utilità, dell’intervento è ancor più evidente se si pensa, poi, che sono proprio questi alcuni degli autori che sono stati affrontati nella serie di videointerviste realizzate da diversi docenti della Cattolica appositamente per preparare i team di studenti nella realizzazione del proprio elaborato per il concorso (iscrizioni entro il 14 novembre 2015; convegno finale il 18 e19 marzo 2016). Ed è proprio la storia il grande interlocutore di Zagrebelsky quando si chiede: com’è possibile ritrovare il principio di giustizia universale dell’unicuique suum se in un caso può applicarsi alla vicenda storica di San Martino e della donazione di parte del suo mantello al povero e contemporaneamente leggerlo all’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald (“Jedem Das Seine”)?
Se andiamo in cerca di una definizione esaustiva ed universale del concetto di giustizia, se accettiamo l’ipotesi di esistenza di una sua nozione assoluta, l’aporia in cui si cade è sempre la medesima: questo come tutti gli altri motti usati per definire la giustizia è una proposizione puramente formale ed è proprio la sua assoluta formalità la causa della sua equivocità. In questo caso la giustizia viene ultimamente a coincidere con il potere stesso o con coloro che lo esercitano, cioè con l’obbedienza totale alla legge. E ciò è quantomeno paradossale, dal momento che quello che si cerca di fare, individuando un concetto universale di giustizia, è di fissare, formulare un principio ed una categoria ermeneutica che preceda la legge stessa e che permetta quindi di fondarla come tale.
Il fatto è che, per Zagrebelsky, non disponiamo di un criterio di giudizio grazie al quale denotare in modo univoco il significato della parola giustizia. È certamente un’affermazione problematica, ma ha d’altra parte il merito di porre l’attenzione su una grande verità, e cioè che la giustizia non è mai una cosa data una volta per tutte. Ed è forse anche questo il senso della proposta di Zagrebelsky, quando provoca: “immaginiamo che la giustizia non sia un concetto, ma un sentimento”. Quello a cui lui qui si riferisce non sono tanto quelle passioni contingenti e sostanzialmente cieche, ma delle emozioni stabili, “pensieri emozionali” — così li ha definiti, con questa bellissima espressione — che non solo ci permettono di conoscere l’oggetto, ma ci costringono a prendere posizione di fronte ad esso, di sentirne la chiamata a lasciarsene interpellare. La società, allora, si può forse costruire su questo consenso, su questo condiviso sentimento di giustizia — “quante volte ne parliamo così”, chiosa Zagrebelsky — intuitivo ed emozionale.
Questo potrebbe essere un criterio di discernimento obiettivo del giusto, dal momento che è di fronte alla massima ingiustizia e non alla massima giustizia che di fatto è più immediato trovare uno spazio comune, l’intersezione di più istanze. Provocati dal dolore innocente di dostoevskiana memoria, infatti, emerge inevitabilmente in noi “il profondo dell’umanità”, che per Zagrebelsky resta la nostra comune partecipazione all’esperienza della morte e della finitudine.
Aldilà dell’eventuale condivisione della posizione teoretica, non si può certo non apprezzare il contenuto e il metodo del richiamo di Zagrebelsky, che ci ha invitato a riscoprire che il pensare è innanzitutto una sfida, un dialogo e a riflettere su una dimensione dell’umano che troppo spesso è riduttivamente interpretata. Allo stesso tempo resta, forse, da chiedersi se una ragione calcolante, esclusivamente procedurale sia l’unica ragione possibile, resta cioè da chiedersi se la risposta a che cosa sia la giustizia non sia possibile da trovarsi nell’unità di una ragione appassionata del vero. Ma è in fondo proprio porre questa domanda, l’aurora della gioia del pensiero e l’augurio di scoperta a tutti gli studenti che si stanno mettendo al lavoro.