Caro direttore,
Vorrei raccontare la mia esperienza di insegnante di italiano, dopo aver letto e apprezzato quanto ha scritto Corrado Bagnoli nel suo ultimo articolo.
Ho incominciato ad insegnare in una prima media; gli allievi provenivano in gran parte da una scuola elementare che aveva scelto di privilegiare il racconto di esperienze allo studio del manuale. Il risultato era che quei ragazzi leggevano stentatamente e scrivevano poco e con grandi incertezze. Memore del detto si impara facendo, la cura fu immediata e severa: un temino a casa tutte le settimane. Per la grammatica, la scuola aveva adottato un testo vagamente strutturalista, in cui gli esercizi tradizionali di analisi grammaticale e logica erano sostituiti da freccette e altri segni grafici che permettevano di svolgere il compito sul libro, evitando la fatica di riscriverli. Malissimo. Del resto, quasi tutte le grammatiche italiane erano allora suppergiù così. Imparai allora a spiegare italiano, storia geografia con il linguaggio più semplice possibile, per farmi capire bene dai miei allievi, le cui competenze lessicali erano scarse. La cosa comportava un dispendio notevole di energie, ma fu un vero allenamento per il futuro, nelle classi di liceo in cui, diventata di ruolo, mi trovai per quasi 25 anni.
La scuola statale viveva allora anni monopolizzati dalla Cgil e dal Cidi (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti). Quest’ultimo influenzò la didattica dell’italiano in modo notevole: accanto a proposte interessanti e innovative, pesava molto la cappa ideologica della parte politica che ne finanziava le pubblicazioni. La grammatica, ad esempio, se non veniva abolita, si trovava fortemente sottovalutata. Erano irrilevanti nella valutazione gli errori di ortografia e di punteggiatura. Io davo 4 al triennio per un solo errore grave di ortografia: avevo visto che era l’unico modo perché lo sbaglio non fosse ripetuto.
Dai primi fascicoli del Cidi, i loro autori passarono ai testi di letteratura, con la benedizione di famosi cattedratici. Era veramente difficile trovare antologie della letteratura italiana compatibili non dico con la propria visione del mondo (quanta assenza dei cattolici in questo campo!), ma almeno con la propria prospettiva didattica. Ricordo lo sgomento, pur in una frettolosa consultazione per adottare i libri, di capoversi in cui Francesco si giustificava in quanto contrapposto a Valdo, e Verga veniva ridotto a gentiluomo conservatore a fronte di Zola rivoluzionario. Per non parlare di Leopardi privato del “Canto notturno”, perché l’attenzione era spostata su “La ginestra” e le Operette morali. E infine I promessi sposi divennero il romanzo di formazione di Renzo o, peggio ancora, spunto per parlare dell’emigrazione. Tutto ciò non in volumi di nicchia, ma nei manuali più stimati per il nome dei loro autori e per le case editrici più affermate sul mercato.
Fui invitata a collaborare a una antologia meno ideologica e più attinente ai testi, ma il progetto non andò in porto, soprattutto per il grave onere economico che allontanava gli editori da un’opera così impegnativa. Concentrai le mie forze allora sui ragazzi che mi erano affidati, nelle classi in cui potevo intervenire direttamente, anche se rimase sempre la percezione di una necessità alla quale non si era risposto in modo pubblico e adeguato. Quasi allo scadere del mio impegno scolastico da quelle lezioni venne fuori un libro che ebbe il plauso del portale della Treccani, ma una scarsa diffusione; lo dico dopo molti anni e perciò con il distacco dovuto: non fu nemmeno esposto per un’eventuale vendita nelle riunioni degli insegnanti del movimento al quale appartengo. Tanto si era distanti dal problema.
E veniamo ad anni relativamente più recenti. Prima di tutto: nel 1996 il ministro Berlinguer decretò che il programma di storia per l’ultimo anno di studio fosse solo il Novecento. Discussioni tra i colleghi di storia e filosofia sulla fattibilità della cosa. Per italiano veniva meno la sincronia tra Ottocento storico e letterario. Ma questo al ministro non interessava.
Come non interessava affatto verificare come gli studenti scrivessero, se nel 1998 cadde un’altra tegola sulla povera scuola: la legge voluta dallo stesso Berlinguer che promosse l’esame di maturità a esame di Stato. Anche la prima prova scritta, quella di italiano, venne cambiata. Il tema da svolgere era troppo retorico e antiquato. Ci si inventò allora quella cosa chilometrica consistente nell’analisi del testo, saggio breve o articolo di giornale su quattro argomenti e infine tema di storia e tema di attualità.
Un tonfo. Alla maturità di quell’anno ci si telefonava tra commissari interni ed esterni di italiano, quasi increduli delle cose che andavamo correggendo e vedendo il baratro tra quelle cose e il tema degli anni precedenti. Non so se le cose siano migliorate. Finché ho corretto quelle prove, i risultati sono stati mediocri. Non veniva fuori neppure un taglia e incolla, emergeva l’opinione comune non sostenuta da validi argomenti o il commento al brano ritenuto più contiguo alle proprie idee. Naturalmente prove così concepite non consentono all’eccellenza di brillare, sono il trionfo della mediocrità.
Mi auguro che l’appello dei seicento docenti universitari venga ascoltato. Però, anche se è una cosa molto antipatica, mi sia consentito il “noi ve l’avevamo detto”.