Il progetto sperimentale Vales, che interessa 600 scuole, sta facendo da apripista al nuovo “Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione”, la cui filosofia è quella di usare benchmark esterni per aiutare le scuole a migliorarsi. Allo stesso tempo l’Invalsi sta mettendo a punto la prova standard per l’ultimo anno della scuola secondaria superiore, l’ultimo tassello destinato a completare la serie delle rilevazioni nazionali già avviate (si comincia il 7 maggio con la prova preliminare di lettura in classe II e di italiano in II e V elementare; in maggio verrà effettuata su classi campione la prova di V superiore).
Puntualmente, con l’invio alle scuole dei plichi di istruzioni, sono partite anche le proteste. «C’è una disabitudine alla misurazione che senz’altro contribuisce a spiegare il ritardo nel nostro paese» dice a ilsussidiario.net Paolo Sestito, commissario straordinario dell’Invalsi.
Misurazione e performance sono due parole che fanno ancora venire il mal di pancia.
C’è un dibattito su cosa si intenda per misurare, ed è ragionevole che sia così. L’introduzione di una misurazione di fenomeni complessi come quelli connessi con il sistema scolastico deve essere un processo graduale, progressivo, accompagnato da una ampia e serena discussione sul cosa si debba misurare, sul come, sulla valenza del tutto. Il ritardo del passato spiega il ritardo attuale, ma non ci sono scorciatoie: serve decisione e lungimiranza, ma comunque con un approccio cauto e graduale.
Perché questa scelta?
C’è una necessità innanzitutto tecnica. Tutte le prove effettuate non sono quiz improvvisati: vengono testate un anno prima in un campione di scuole, vengono validate e sistemate nella loro formulazione, depurate di ogni ambiguità. Naturalmente si può sempre migliorare, ma questo è il «marchio di fabbrica». Ma come dicevo vi è anche una necessità «politica», di condivisione delle scelte.
Ad oggi, anche alla luce del nuovo Regolamento del Snv, che cosa vuol dire valutare una scuola?
Finora abbiamo parlato di misure. La valutazione di una scuola è un tema ancora più complesso perché occorre partire da misure di performance, che sono lo scopo della rilevazione degli apprendimenti, ma queste poi non bastano. Il sistema di valutazione immaginato dal nuovo Regolamento è multipolare perché combina autovalutazione e valutazione esterna ed anche perché mette insieme la valutazione delle misure degli apprendimenti degli alunni – più in generale la considerazione degli esiti formativi ed educativi in senso ampio, che dovrebbero essere l’obiettivo d’una buona scuola, e che vanno ben al di là delle misure degli apprendimenti fornite dall’Invalsi – e dei processi posti in essere da una scuola che hanno contribuito a determinare quegli apprendimenti.
Con quale scopo?
Non tanto quello di dire chi è più bravo e chi è meno bravo. Si tratta piuttosto di mettere la singola scuola, dotata di strumenti adeguati, nella condizione di potersi migliorare. Il Regolamento prevede questa come finalità generale dei percorsi di valutazione e immagina che le scuole possano liberamente scegliere un loro percorso di miglioramento, avendo per così dire il «diritto» (ma non il dovere) di rivolgersi all’Indire per essere in proposito supportate. Questo stimolo al miglioramento deve valere per tutte le scuole, anche per quelle che già magari raggiungono risultati più che soddisfacenti. Deve ovviamente valere ancor di più per quelle in condizioni più critiche, a cui il nuovo Regolamento immagina di dare priorità nell’intervento dei valutatori esterni e che però, a mio avviso, laddove tali condizioni critiche siano legate soprattutto alle difficoltà del contesto in cui si opera, sarebbe anche utile poter assegnare maggiori risorse dedicate.
Tra gli insegnanti ci sono ancora molte riserve nei confronti di un sistema di valutazione che, valutando la scuola, valuta indirettamente anche il loro operato. Come superare questo dualismo culturale?
Il sistema sinora immaginato è un sistema di valutazione delle scuole e, per alcuni aspetti, dei loro dirigenti scolastici. Un sistema centralizzato di valutazione degli insegnanti, che comunque non è oggetto del Regolamento, avrebbe a mio avviso poco senso. Quanto alle scuole, che sono l’oggetto del Regolamento, il sistema immaginato è fondato sia sull’autovalutazione che sulla valutazione esterna. I valutatori esterni hanno innanzitutto una funzione di validazione e verifica della valutazione interna operata dalla singola scuola. Il loro compito è cercar di capire, con uno sguardo esterno e quindi un po’ più freddo, come si può agire sui punti di debolezza.
Avranno in altri termini un compito di consulenza.
Sì. Non a caso il Regolamento ne prevede di due tipi: un profilo è quello ispettivo, ovverosia il personale tecnico del ministero; il secondo profilo integra due tipi di professionalità. Una è quella di chi ha già avuto esperienza di gestione e coordinamento all’interno delle scuole, l’altra competenza è quella di chi ha una preparazione più analitica nel campo della valutazione e/o dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche, perché la scuola è una organizzazione pubblica. Sono figure che dovranno essere formate e, in parte, selezionate dall’Invalsi: nei prossimi mesi affronteremo, con la massima trasparenza, il tema del come farlo, ma è evidente che si tratta di individuare quelli che potremmo definire come una sorta di «amici critici», non di dispensatori di voti e pagelle.
Alla luce di quello che sta facendo l’Invalsi, stiamo percorrendo una «via italiana» alla valutazione?
Non vorrei, parlando di «via italiana», peccare di presunzione, perché molte cose sono solo abbozzate e ancora da costruire e, come dicevo all’inizio il ritardo anche culturale che l’Italia ha accumulato su tali materie non è certo una bella cosa. Paradossalmente però chi, come l’Italia, arriva più tardi può imparare dalle esperienze degli altri. Quindi, anziché seguire l’approccio inizialmente seguito da diversi Paesi, decisamente orientato verso la costruzione di ranking di scuole o, all’interno delle scuole, del personale, noi abbiamo cercato di di andare per così dire alla fase successiva, più matura, che quei sistemi stanno ora perseguendo, in parte con una modificazione di rotta. Di qui la valorizzazione della valutazione interna, la finalizzazione al miglioramento, l’attenzione al concetto di valore aggiunto, ai risultati cioè di una scuola tenendo conto delle sue effettive condizioni di partenza, del contesto in cui opera, etc. Le direttrici di fondo di quella che lei chiamava «via italiana» mi sembrano quindi molto avanzate, anche se il ritardo accumulato storicamente significa che poi molti strumenti analitici ed operativi sono ancora in larga parte da costruire.
Due mesi fa lei rispose su Lavoce.info ad alcune associazioni che chiedevano un ripensamento complessivo della valutazione. Quel dibattito ha avuto il merito di evidenziare, se mai ce ne fosse bisogno, che la valutazione è un tema politico. Lei cosa si attende in questa fase?
Un sistema di valutazione è politico nel senso che presuppone una idea di come il sistema debba essere. Però quella politicità non vuol dire che occorra in continuazione riparlare dei massimi sistemi, rimettendo in discussione i piccoli passi concreti che si possono fare, che si sono fatti e che hanno un loro significato intrinseco. Credo che da questo punto di vista l’impianto previsto nel nuovo Regolamento sia un sostanziale passo in avanti, perché consente di superare le contrapposizioni del passato e parla di cose sensate e fattibili. Il ruolo che in esso viene assegnato all’Invalsi può in proposito aiutare, proprio perché l’Invalsi non ha un ruolo politico o ministeriale e non ha da imbastire trattative politiche e sindacali. Un soggetto tecnico, che operi le sue scelte in piena trasparenza e discutendo con tutti gli interlocutori, è una garanzia per mettere a punto e definire i dettagli del sistema immaginato nel Regolamento.
Che cosa chiederebbe al nuovo ministro dell’Istruzione?
L’Invalsi deve rispondere ad una grande sfida: la costruzione, insieme ad altri soggetti, di un sistema nazionale di valutazione. A questo scopo occorrono due cose: le risorse, poche ma definite più chiaramente che in passato, che servono all’Invalsi per svolgere il suo lavoro tecnico e più in generale ai nuclei di valutatori esterni di iniziare a operare, e le risorse necessarie per intervenire nelle scuole che sono in condizioni più critiche. Soprattutto là dove le criticità derivano da situazioni ambientali difficili, puntare su una spinta al miglioramento richiede anche di poter contare sulla mano amica dello Stato centrale. Altrimenti, il rischio è che il sistema di valutazione − e più in generale tutti i discorsi sulla valutazione, incluse le rilevazioni sugli apprendimenti − sia percepito non come un aiuto alla scuola, ma come uno strumento per mortificarla.
E per quanto riguarda le rilevazioni degli apprendimenti?
Stiamo definendo le prove di V superiore, preannunciando con ampio anticipo quello che vogliamo fare. Sulla logica di tali prove, che avranno aspetti molto innovativi (in primis l’uso del computer), apriremo nelle prossime settimane una consultazione pubblica e nei pre-test che condurremo vogliamo verificare sia questioni relative al grado di differenziazione tra i diversi indirizzi scolastici, sia il loro possibile utilizzo a fini di orientamento e selezione nei successivi percorsi universitari.
E in prospettiva?
In prospettiva è anche da decidere il loro possibile utilizzo nell’ambito dell’esame di Stato, una questione su cui auspico che si apra una riflessione all’interno di una riflessione più complessiva su quest’ultimo. Sarebbe un errore fare delle prove Invalsi una prova ulteriore che si aggiunge alle altre, come a suo tempo fatto nell’esame conclusivo del I ciclo. Credo sia preferibile ripensare il senso complessivo e la struttura dell’esame finale del secondo ciclo e una data ragionevole per intervenire in proposito potrebbe essere il 2015, anno in cui giungerà a maturazione la riforma del II ciclo d’istruzione.