Trovato l’accordo alla COP21, inizia subito l’impegnativo cammino per verificare quanto siano realizzabili i propositi contenuti nel documento conclusivo del summit di Parigi. I commenti a caldo, naturalmente, coprono una vasta gamma di sensibilità: da chi lamenta la troppa mediazione che ha impedito di arrivare a decisioni drastiche, ad esempio, circa la decarbonizzazione totale; a chi ritiene difficile rispettare il limite dei 2 gradi di innalzamento termico e quindi del tutto illusorio pensare che l’aumento possa essere “ben al di sotto” dei 2 gradi. In ogni caso su tutto pesa il fatto che non ci sia un controllo obbligatorio super partes e che le azioni di mitigazione e adattamento siano lasciate alla responsabilità dei singoli stati, con l’impegno solennemente assunto da tutti a esibire i risultati ogni cinque anni.
Ma più che i commenti, sono interessanti le azioni e i soggetti. E qualcosa si è già visto proprio durante le giornate parigine. Per l’Italia, in particolare, oltre alla componente più politica, si sono visti all’opera ricercatori e tecnici di vari istituti del Cnr, poi quelli dell’Enea e quelli del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC).
Quest’ultimo, proprio a Le Burget, mentre si intensificavano le trattative per arrivare al documento finale condiviso, in collaborazione con la Società Italiana per le Scienze del Clima e il Basque Centre for Climate Change, ha organizzato un interessante e seguito evento dal titolo “Regioni e cambiamenti climatici: la sfida per le comunità locali”, con l’intento di portare all’attenzione della comunità internazionale la necessità di integrare competenze di governo a livello globale, nazionale e regionale. Se è vero infatti che il problema del cambiamento climatico è globale, è anche evidente che qualunque azione, sia di mitigazione ma soprattutto di adattamento, non può che partire dal livello locale e solo da lì può avere qualche chance di essere durevole ed efficace.
Il fulcro dell’incontro, cui hanno contribuito esperienze dall’Italia, dai Paesi baschi, dalla California e dall’Unione Europea, è stato il tavolo interregionale di coordinamento sulla strategia di adattamento che vede le regioni italiane collaborare con l’obiettivo di favorire e monitorare l’implementazione di strategie regionali a piani di azione che siano coerenti con la strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (SNAC).
Significativo il caso della Regione Puglia, già avviata sulla strada della decarbonizzazione, come ha dichiarato, intervenendo a Parigi, il Presidente della Regione Michele Emiliano: «Abbiamo colto l’occasione di una grande opera infrastrutturale che è il gasdotto TAP, per proporre al governo italiano di alimentare a gas sia la centrale elettrica di Cerano che l’Ilva di Taranto».
Non è un caso che sia una regione “mediterranea” a guidare l’azione post-COP21. Negli ultimi 150 anni l’aumento di temperatura su scala globale è stato di quasi 1 grado e il Mediterraneo è una delle aree più sensibili ai suoi effetti. La conferma del ruolo cruciale del Mediterraneo nella questione climatica viene anche da un’altra iniziativa, già avviata e che vede pienamente coinvolto un altro dei soggetti che abbiamo prima menzionato: l’Enea.
Si tratta del Integrato di Osservazione sul Carbonio ICOS ERIC (Carbon Observation System), lanciato ufficialmente dalla Commissione europea con l’obiettivo di raccogliere e fornire informazioni di lungo periodo sui gas serra in tutta Europa e presentato anch’esso in occasione della COP21. È un progetto europeo che unisce scienziati di Italia, Belgio, Francia, Germania, Olanda, Norvegia, Svezia e Finlandia (sede di ICOS-ERIC), con la Svizzera che al momento partecipa come osservatore. La nuova infrastruttura di ricerca è articolata in tre settori – atmosfera, ecosistema e mare – e permetterà di ottimizzare la rete osservativa dedicata allo studio del ciclo del carbonio, in modo da ottenere una “fotografia” dettagliata della distribuzione dei principali gas serra (come CO2 e metano).
La crescita della concentrazione di CO2 in atmosfera è rapidissima e continuare ad effettuare queste misure è fondamentale per capire l’evoluzione del clima e quantificare sia l’impatto antropico che la capacità del sistema naturale di adattarsi. Come ha dichiarato Alcide di Sarra dell’Enea, «metà dell’anidride carbonica emessa dall’uomo viene assorbita da vegetazione e oceani. L’altra metà rimane in atmosfera ed è quella che osserviamo noi. grandi incertezze sulla capacità del Pianeta di assorbire la CO2emessa dall’uomo, soprattutto al variare delle condizioni di temperatura, acidità degli oceani e contenuto di anidride carbonica. questo bisogna continuare le misure di lungo periodo e realizzare esperimenti mirati per comprendere meglio alcuni processi. Senza di questo non è possibile capire come sta evolvendo e come cambierà nel futuro il clima».
L’isola di Lampedusa è particolarmente adatta per questo tipo di osservazioni perché l’influenza delle attività antropiche e della vegetazione sono molto ridotte e le misure sono rappresentative della distribuzione su larga scala della CO2. L’Enea hainiziato ad analizzare la concentrazione di CO2 ’aria a Lampedusa nel 19, cinque anni prima che fosse inaugurata la Stazione di Osservazioni Climatiche “Roberto Sarao”. Ora l’Enea partecipa al progetto ICOS-ERIC (insieme ad altre 15 istituzioni italiane) occupandosi della ricerca in ambito atmosferico proprio grazie all’osservatorio climatico di Lampedusa, al quale si è aggiunta quest’anno una boa oceanografica, un vero e proprio laboratorio in mare aperto per studiare i processi che influenzano il clima nel bacino del Mediterraneo.
I ricercatori della Stazione “Roberto Sarao” confermano la gravità della situazione che stanno monitorando: «1992 al 2015 il contenuto di CO2nell’aria a Lampedusa è passato da 355 a oltre 400 ppm (parti per milione). Per quanto ne sappiamo si tratta di un incremento avvenuto con una rapidità senza precedenti nella storia del Pianeta. Prima del 1800, per almeno 800 mila anni la concentrazione di CO2 ha mai superato 300 ppm. Il rapido aumento avvenuto negli ultimi 250 anni è dovuto alle attività umane e in larghissima parte alle emissioni da combustibili fossili. Continua ad aumentare anche il metano, il cui contributo all’incremento di effetto serra degli ultimi 250 anni è stato circa un terzo di quello della CO2 . La concentrazione di questo gas è più che raddoppiata rispetto al periodo preindustriale e negli ultimi anni ha registrato un forte incremento arrivando oltre quota 1900 ppb (parti per miliardo), quasi il 4% in più rispetto a quando abbiamo iniziato le misure nel 1994».