La stella della notte di Betlemme indica la strada verso ciò che interpella la coscienza di tutti gli uomini e le donne di buona volontà, con la promessa di una “grandissima gioia” (Mt 2,10). Si tratta del luogo (e tempo) in cui, come si legge nel Natale di Manzoni, Dio porge una seconda volta all’uomo la mano, ripetendo il gesto archetipico del Creatore — fissato da Michelangelo al centro della Cappella Sistina — e restituendogli la vita perduta. Alla nostra natura, menomata dal peccato originale, per gratuito dono d’amore viene offerta la possibilità di uscire dal tempo del “grande errore” (Dante, Par. VII vv. 25-33). “Fortunati”, aggiunge Manzoni, quanti “senza indugiar, cercarono/ l’albergo poveretto”. La Grazia immediatamente si manifesta nella disponibilità del cuore al movimento (come quello dei pastori in Lc 2,16: Et venerunt festinantes et invenerunt), che mendica tra le pieghe più umili del mondo la propria luce. Al cospetto di tale mistero, ognuno, come Zaccaria, può perdere la voce, e ritrovarsi a muovere invano le labbra, mentre avviandosi al martirio Stefano — all’opposto — “non fa altro che parlare”, plenus gratia et virtute (At 6,8).
In effetti “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5). Il mondo ostile dei potenti, in Manzoni, ignora e combatte ciò che gli è offerto. Un drammatico filo rosso, nei testi sacri e in quelli liturgici, all’annuncio dell’Angelo collega l’uccisione ordinata da Erode di “tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio” (Mt 2,16), e quella di Stefano, approvata da Saulo nella sua furia persecutrice (“Saulo intanto infuriava contro la Chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione”: At 8,1). Anzi, proprio Stefano – nel suo ispirato discorso – ricorda il tradimento e il sacrificio del Giusto a quanti nel cuore e nelle orecchie oppongono resistenza allo Spirito e rigettano la legge ricevuta “per mano degli angeli” (At 7,53).
Il nesso tra le due ante di questa storia risulta, insieme, archetipico e sconvolgente, quale autentico e profetico diagramma che registra la perpetua, sempre possibile incapacità dell’uomo di accettare l’iniziativa del Mistero. Esso è ripreso e sviluppato, in tal senso, all’inizio del poema teatrale Rappresentazione della Croce (2000) di Giovanni Raboni. Mentre “L’aria è ancora sconvolta dalle ali/ dei grandi angeli dell’annunciazione”, ha luogo la tremenda “carneficina”: coi soldati di Erode che buttano giù le porte, frugano sotto i letti, portano via i bambini e li ammazzano. Più ancora che il crudo realismo della scena dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni, viene alla mente l’undicesima, celebre cappella del Sacro Monte di Varallo, tanto cara a Giovanni Testori, il cui dinamismo rappresentativo trasmette all’osservatore non la memoria di un passato, ma il pathos di un male presente.
La cosiddetta “Strage degli innocenti” è un’esperienza che non si può cancellare, nelle infinite forme con cui è stata poi replicata dalla storia antica e recente. Essa continua a insistere tra i ricordi e i pensieri, come una domanda che, sancendo in modo persino brutale la libertà dell’uomo davanti all’annuncio del Verbo incarnato, ne ribadisce la possibilità di perdersi o salvarsi. L’iscrizione che accompagna la scena, a Varallo, è tratta dalle parole con cui, in Ger 31,15, Rachele piange i suoi discendenti costretti all’esilio, già citate in Mt 2,18: “Così dice il Signore: ‘Una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più'”.
Di fronte al non più, al male che, a volte anonimamente, strappa l’uomo a se stesso, il dolore sembra appunto inconsolabile. E come tale è restituito da Primo Levi in quella sistematica e protratta strage degli innocenti di cui è testimonianza e memoria Se questo è un uomo. Il fotogramma su cui ora si vorrebbe richiamare l’attenzione fu aggiunto dallo scrittore a freddo, nel passaggio dalla prima (1947) alla seconda edizione (1958) dell’opera: “Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte. Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli”.
Erode è sempre in azione, come la cattiva novella di Auschwitz e la struggente consapevolezza testimoniale di Levi ci impongono di considerare. Così, come tanti, come troppi, “morì Emilia”: le cure dei suoi genitori, come quelle della manzoniana madre di Cecilia, indicano nella pietà e nella commiserazione il vertice dell’umano. Ma, nella luce di Betlemme, questo non è tutto: al di là si aprono i “sentier della speranza” (Il cinque maggio, v. 92), su cui si incammina chi si lasci prendere dalla mano del cielo (citata, prima che nel Cinque maggio, nelle Confessiones di sant’Agostino). Allora si potrà ripetere, la notte di Natale: “Dice il Signore: ‘Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene; essi torneranno dal paese nemico. C’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini'” (Ger 31,16-17).