Il pensiero di Charles Péguy costituisce uno tra i contributi più originali e rilevanti – anche se ancora in gran parte nascosto – alla filosofia del Novecento. La cosa può sembrare paradossale, se si pensa alla sua accesa polemica contro il partito degli intellettuali di professione, e la sua insofferenza ai principi astratti che pretendono di imbrigliare l’imprevedibilità della vita e la sorpresa degli eventi. Ma a ben guardare è proprio questa attitudine anti-accademica e anticlericale – di qualunque clero si tratti, quello della neo-scolastica o dello spiritualismo cattolico o del materialismo positivista – a rendere più interessante e decisivo quel contributo. Sin dall’inizio Péguy si augurava di «mantenere la giovinezza del suo appetito metafisico», quella fame dell’essere e quella sete del senso delle cose che nasce dall’impatto con il reale. Perché il reale non “è” mai semplicemente lì “fuori” di noi (ma neanche semplicemente qui “dentro” di noi), come qualcosa di già-fatto, ma appunto accade: il suo essere è dell’ordine della storia, e il suo senso ha la dimensione del tempo. La realtà è qualcosa che “si dà” a qualcuno, un evento che chiede il nostro libero sguardo per mostrare il suo senso – anzi, il suo stesso essere.
Questo porta a due conseguenze speculari: da un lato noi non possiamo mai presumere di cogliere e conoscere la realtà del mondo una volta per tutte, perché questo è possibile solo quando misuriamo le cose con i nostri schemi a priori (come voleva il positivismo); ma ogni “scienza” esatta deve sempre fare i conti con gli eventi individuali e irripetibili dell’esperienza. Perché ogni volta che la realtà riaccade si fa esperienza – in un tempo e in uno spazio determinati – del suo senso, e questa scoperta ci permette di scoprire tutta la potenza inesauribile dell’essere. Ma specularmente, quando parliamo del senso del mondo e del valore dell’uomo non possiamo più intenderli come una costellazione di principi che ci guardino dal cielo, ma come la libera fioritura dalla terra della nostra esperienza vissuta. Lo “spirituale” (per usare i termini di Péguy) o è “carnale” o non è; e la carne dell’esperienza o porta in sé e manifesta da sé la sua verità o resta un dato inerte, anaffettivo. Ma questo sta a dire che solo la libertà può riconoscere l’essere, il senso ed i valori.
La grazia dell’esser cristiani (che a un certo punto della sua vita Péguy riconosce come l’inevitabile origine del suo sguardo e del suo cammino) è ciò che rivela la legge immanente alla natura dell’essere, cioè il suo esser-avvenimento (come ha richiamato acutamente Alain Finkielkraut). È grazie all’esperienza del cristianesimo che la grande scoperta greca della meraviglia per la presenza degli enti può attraversare tutto il dramma della modernità e riaffermarsi dentro quest’ultima, affrancandosi dalle sue riduzioni ma anche rilanciando la scoperta moderna della libertà da cui la stessa grazia alla fine misteriosamente dipende.
Péguy intuisce il problema dell'”essere” come “storia”, con una chiarezza, una drammaticità e una passione che è propria solo di alcuni grandi pensatori del Novecento, come Henri Bergson, Edmund Husserl o Martin Heidegger. Con questi pensatori – pur in tutta la diversità delle loro prospettive – Péguy condivide la serietà con cui prende in considerazione il lavoro del pensiero, quel lavoro sui generis che è il pensiero. E quello di Péguy può ben essere considerato esso stesso come un pensiero al lavoro. Tanto più lavoro, quanto più netto è il giudizio di Péguy sul fatto che la nostra mente non può “produrre” la realtà, ma può solo farsene raggiungere, può accoglierla, può finalmente ri-conoscerla. Ma, appunto, questa “passività” originaria e permanente non solo non ci esime dalla fatica del riconoscimento (verrebbe da dire, con Hegel, dalla “fatica del concetto”), ma anzi è ciò che inaugura il vero lavoro del pensiero.
Non si tratta dunque della mera rivendicazione della “realtà” rispetto alla ragione umana, ma della messa a fuoco dell’incontro originario tra le due. Il nome di questo incontro è avvenimento, un dato in cui è già in gioco, è già implicato e all’opera il pensiero.
Nell’ultimo suo scritto, pubblicato postumo, la Nota congiunta su Cartesio e la filosofia cartesiana, Péguy descrive la passeggiata di due amici filosofi (Julien Benda e lui stesso): «e di che mai parleranno di più pressante» – egli osserva – «se non del problema dell’essere?». Entrambi sono legati da una reciproca complicità per il fatto che «sanno dell’incomparabile dignità del pensiero e, a dispetto di tutto il resto del mondo, a dispetto di tutti i barbari, sanno che non vi è niente di più grave e di più serio del pensiero». Ma il pensiero umano per Péguy non è un’attività astratta del soggetto, bensì la sua apertura più propria, il suo stesso “stare” al mondo. Può meravigliare coloro che sono stati pigramente abituati ad annoverare Péguy tra gli autori “antimoderni” (cioè anti-illuministi, nazionalisti, vitalisti, irrazionalisti ecc.), la stima che egli nutre per la filosofia di Cartesio. Una stima critica, certo, perché Cartesio ha creduto illusoriamente di poter dedurre tutta la realtà dai principi a priori della mente umana; ma appunto per Péguy Cartesio nel far questo ha contraddetto, tradito, negato la sua stessa scoperta: che la conoscenza dell’essere avviene sempre grazie ad un “metodo”, e che questo metodo è la stessa via dell’esperienza. Il nostro pensiero è più grande delle nostre deduzioni, dei nostri meccanismi di controllo, delle nostre formalizzazioni: esso è una vita, una storia esso stesso, il luogo in cui l’essere si fa finalmente presente.
Riprendendo una felice intuizione di Hans Urs von Balthasar possiamo dire che Péguy non è mai stato tentato di innalzare dei bastioni contro il mondo moderno (come ad esempio aveva fatto Kierkegaard nei confronti di Hegel), ma «si trasferisce subito nel cuore della posizione anticristiana dell’hegelismo estremo di sinistra [quello che confluirà nella tradizione socialista abbracciata inizialmente dallo stesso Péguy] per poterlo riportare tutto intero a casa, o meglio per potervi intessere dall’interno il bozzolo cristiano». Ecco, con Péguy è come se il moderno trovasse infine la sua propria casa.