Finalmente qualcosa si muove nel dibattito sulla realizzazione concreta dell’alternanza scuola-lavoro lodevolmente ospitato dal sussidiario.
Il contributo di Alfio Pennisi oltre che partire da una ragionevole premessa (su cui ho comunque qualcosa da osservare) si pone nel solco del pragmatismo che ho vanamente invocato a partire dall’articolo di apertura di Cominelli per arrivare al contributo di Foppa-Pedretti e Ravazzano.
Per essere sinceri bisognerebbe ricordare o aver presente che le origini del dibattito sono un po’ più antiche della legge 107/2015. Già in occasione del riordino Gelmini si era posto il problema, non tanto per i professionali ed i tecnici, che peraltro hanno una consolidata tradizione di stages e rapporti con le realtà d’azienda, quanto per i licei, la cui natura e origine gentiliana non è stata minimamente messa in discussione nei nuovi ordinamenti.
Se si eccettua la sola novità del liceo economico-sociale, persino il liceo sportivo non è altro che un adattamento di realtà esistente che nulla ha a che vedere, per impianto complessivo, con un liceo diciamo così vocazionale.
Di passata faccio osservare che l’avvio dell’alternanza avviene in licei nei cui curricola non sono presenti le discipline giuridico-economiche. Sembra ragionevole?
Cosa cambia, comunque, con la legge 107 sul tema dell’alternanza? Che si passa da una realtà magari a macchia di leopardo ad un obbligo di legge esteso a tutti gli istituti superiori. Un cambio di scala che avviene ancora una volta all’insegna dell'”armiamoci e partite”. Ad iniziare già da quest’anno per le classi terze, aggiungendo a curricola non toccati nemmeno marginalmente un monte ore obbligatorio di 200 ore nel triennio (parlo dei licei) da dedicare ad esperienze nel mondo esterno.
Nella legge sono presenti dieci commi, dal 33 al 43, che non affrontano in maniera decisa nessuno dei punti delicati che questa “riforma epocale” tocca. I punti sono relativi al rapporto scuole-esterno, le necessarie cautele nella scelta dei partners, le garanzie necessarie a non trasformare l’alternanza in una nuova forma, atipica, di collaborazione degli studenti ad attività economiche e poi il punto nevralgico, a mio parere, del rapporto tra tempo scuola e tempo di lavoro.
Alle scuole autonome si lascia l’onere di un avvio obiettivamente difficile. Sarà un caso che un’interrogazione sul tema e che segnala esattamente quello che dicono e scrivono i “gufi” è stato posta al ministro Giannini, in un recente question time, proprio dal Pd e non magari dalle opposizioni?
Tornando a Pennisi il suo merito è di aver segnalato un percorso possibile per i licei. Quello che serve se si vuole passare dall'”ideologia” ai fatti, al reale. Cosa non condivido, però, della premessa di Pennisi? L’idea che il giudizio sia agevole per certi aspetti e diventi complicato o impossibile quando si discute della visione generale sottesa alla cosiddetta “Buona Scuola”.
Vorrei far osservare che esiste un metro, come tale oserei dire “scientifico”, per misurare le scelte dei decisori politici. Il metodo è valutare, a proposito dell’alternanza, lo spread tra obiettivi e fattibilità.
La vicenda della partenza dell’alternanza a me ricorda tanto la vicenda della partenza del Clil. Io continuo ad usarla come pietra di paragone perché, a mio parere, non solo ha elementi forti di analogia ma consente di osservare, criticare e discernere distinguendo una misura realistica da una ideologica. E questo — il misurare — vorrei ricordare a Pennisi, è l’essenza della democrazia, non dell’ideologia. Perché scegliere (non devo ricordare certo a lui l’etimo di “elezioni”) è valutare, come ci ha appena ricordato Nadia Urbinati su Repubblicaa proposito dell’idea che non esistano più scelte di destra e scelte di sinistra.
Dunque il Clil (Gelmini) e l’alternanza (Giannini). Qual è il punto comune? Due buone idee per introdurre il cambiamento nella scuola italiana. Dov’è l’ideologia, evidente e misurabile per entrambe le situazioni? Nell’averle volute imporre senza alcuna valutazione delle condizione di partenza date. Se ne è avuto la misura ad emanazione delle linee guida sull’alternanza. Esse prevedono, ad esempio, la deroga dall’obbligo di firmare convenzioni solo con realtà iscritte nell’Albo previsto dalla legge 107.
In cosa consiste l’ideologia? Nella fretta di far credere come acquisiti certi risultati ed allora, se non si vuol fare propaganda, prima si costruisce l’Albo e poi parte l’alternanza, non il contrario. Prima si emana una direttiva che magari vincoli settori della pubblica amministrazione a farsi carico delle convenzioni e delle richieste delle scuole, e poi si stabilisce che l’alternanza parte subito.
Conosco già l’obiezione: il conservatorismo sta tutto nel presentare come insormontabili le difficoltà legate ai cambiamenti. Peccato, però, che questa sia la stessa logica per cui stiamo provando a riproporre il ponte sullo Stretto di Messina. E’ una vicenda che andrebbe fatta studiare nelle scuole e la boutade è meno boutade di quanto appaia. Perché se Maria Antonietta proponeva al popolo le brioches, oggi c’è qualcuno che, saltando a pie’ pari le ragionevoli obiezioni del passato, propone ai messinesi senz’acqua di bere il ponte.
Ma, battute a parte, qual è l’osservazione, per me dirimente, per valutare questa parte della legge 107/2015? L’aver posto un obbligo di legge che si sa già che sarà eluso, aggirato, o — semplicemente — non rispettato. Pessimo esempio di pedagogia politica quella di fare leggi con la consapevolezza della loro non applicabilità e rispetto. Perché induce non solo a veicolare l’idea che le regole sono “finte” e non devono esser rispettate, ma anche perché fa passare l’idea della “non misurabilità” delle scelte politiche.
Che scrivere dell’esperienza descritta da Pennisi? Che, come ho sostenuto, se si voleva non essere ideologicamente frettolosi bisognava metter mano anche ai curricola, all’equilibrio tra i due versanti, introducendo magari gradualità e pure qualche elemento che fungesse da deterrente per le scuole “pigre” o fantasiose. Quelle che potrebbero pensare, ad esempio, ad attività ed esperienze come quella di animatore in un villaggio turistico a cui avviare le studentesse del liceo delle scienze umane. E l’esempio, ahimè, non è inventato.
Gradualità e deterrenti in uno, magari, con rigidi paletti qualitativi nella scelta delle realtà esterne, pubbliche e private, in cui avviamo i ragazzi e persino incentivi/disincentivi per le stesse realtà pubbliche per smuoverne le diffidenze. Del resto ricordo che una delle prime richieste di Confindustria è stata, in relazione ad un’eventuale disponibilità per l’alternanza delle aziende associate, quella di sgravi fiscali. Altro che mondo dell’impresa che, come avviene in Germania, si sobbarca oneri anche economici o pubblicizzazione di risorse private di cui si è scritto, a mio parere improvvidamente, sul sussidiario.
Servivano misure di “contorno” e non se ne vedono. Servivano indirizzi e direttive per le realtà pubbliche che possono ospitare gli studenti. Questo è centralismo? Questo è non essere liberisti e liberali? Ebbene sì! Basta scegliere e non far passare l’idea che liberisti e keynesiani siano la stessa cosa.
Perché scegliere richiede il misurare. Con tutto il rispetto per la Arendt citata da Pennisi.