E’ stato messo a punto un nuovo interessante studio che permette di conoscere meglio il vulcano Etna, vulcano sempre attivo e allo stesso tempo abitato da molte migliaia di persone. Si calcola infatti che in tutto il distretto dell’Etna vivano circa 800mila persone. Il nuovo studio, messo a punto da ricercatori dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, dell’università di Bari, di Roma e dell’Istituto di metodologie per l’analisi ambientale del Cnr, permettono di conoscere meglio il fenomeno delle frane e degli smottamenti che si verificano sul lato orientale del vulcano e quindi capire come intervenire per ridurre il disagio delle popolazioni che vivono su questo lato del monte. IlSussidiario.net ha contattato uno di questi ricercatori, il dottor Marco Neri dell’INGV, per chiedergli di spiegare in cosa consiste questo studio e che cosa comporta. “Abbiamo potuto stabilire” ci ha detto “la profondità reale della crosta vulcanica coinvolta in questi movimenti, che è addirittura di tre, quattro chilometri di profondità. Una ricostruzione tridimensionale che sarà molto utile agli scienziati vulcanologi per capire cosa succede e quindi poter intervenire sulla superficie”. Per Neri, in questo modo la popolazione locale ne trarrà dei vantaggi.
Dottor Neri, ci spieghi in cosa consiste esattamente il vostro studio.
Bisogna prima spiegare perché è stato eseguito tale studio. L’Etna come molti altri vulcani che su un fianco hanno un bacino, un mare, soffrono di un lento collasso di una parte del vulcano stesso. Una frana cioè che coinvolge il fianco che si affaccia sul bacino ionico caratterizzato da formazioni che possono assomigliare a frane. Teniamo conto però che si tratta di movimenti modesti: in un anno possono fare due o tre centimetri di movimento, ma sono comunque movimenti rilevanti.
Queste frane, questi movimenti, sono determinati dall’attività vulcanica interna o da quella esterna?
E’ un aspetto sia interno che esterno. E’ chiaro che se il vulcano si deforma in questo settore accade sia perché nella parte del bacino ionico c’è una mancanza di massa, ovvero la montagna discende nel mare di oltre duemila metri perché non c’è un contrasto forte.
Dalla parte opposta del vulcano invece che cosa troviamo?
Dalla parte ovest il vulcano invece discende nelle catene montuose trovando una sorta di sponda che lo contiene. E’ dunque un fattore esterno, ma c’è anche il fattore interno che è ovviamente legato alla vita del vulcano perché il vulcano con le uscite di gas magmatiche dal profondo esercita una spinta lateralmente e quindi dà l’innesto ai fenomeni di collasso che però avvengono dove la morfologia lo consente, appunto dove c’è una mancanza di massa di sconfinamento. Nel caso dell’Etna il lato orientale.
Questo lato orientale del vulcano è abitato?
Sì, e arriviamo così all’aspetto interessante del problema. Il lato orientale come quello meridionale sono intensamente urbanizzati. Teniamo conto che nell’intero distretto vulcanico dell’Etna vivono circa 800mila persone. Chi si accorge di questi movimenti lenti che interessano il lato orientale? Sicuramente gli strumenti in particolare i satelliti che fanno una sorta di radiografia o di fotografia dall’alto e quindi evidenziano da un anno all’altro queste deformazioni che colpiscono l’Etna.
E gli abitanti?
Se ne accorgono anche le persone che vivono lungo i margini di questa zona di lenta deformazione perché avendo le strade e le case costruite a cavallo tra la zona stabile e quella che si deforma, lungo queste linee di demarcazione avvengono delle fagliazioni superficiali, intendo fratturazioni, del terreno.
Il che sarà piuttosto pericoloso per chi ci vive.
Ci sono zone che si deformano in modo fragile provocando queste fratture sul terreno, le faglie, in alcun casi invece producono anche dei terremoti.
Dunque la popolazione è a rischio?
Gli abitanti dell’Etna conoscono bene questa situazione di rischio in cui vivono, sanno che devono riparare le loro abitazioni con una certa frequenza perché soggette a lente deformazioni. Questi fenomeni poi generano come successo nel 2002 in corrispondenza di fenomeni eruttivi molto rilevanti una deformazione più veloce del fianco provocando i terremoti. La località di Santa Venerina, nel 2002 , ad esempio ha avuto più di mille persone senza tetto.Questo movimento invece che essere lento ha accelerato di una decina di centimetri generando terremoti che hanno investito il fianco orientale.
Il vostro studio che conseguenze avrà per capire questo fenomeno?
Se in superficie le zone che si deformano erano già ben note grazie ai satelliti adesso con questo studio attraverso la magnetotellurica abbiamo potuto ricostruire in tre dimensioni la montagna e abbiamo capito a che profondità avvengono queste deformazioni che avvengono in superficie. Questo è molto importante perché nel modellare le deformazioni bisogna associarle al movimento che le genera. Abbiamo capito che i movimenti in superficie che interessano il fianco orientale hanno uno spessore che arriva fino ai tre, anche quattro chilometri di profondità.
Questa profondità è grave, rende il problema più evidente?
Immagini di affettare il vulcano in senso est ovest e provi a immaginare la sezione del vulcano interessata alla frana. Deve prendere questa porzione del vulcano e farlo muovere verso il mare. Lo spessore di questa crosta che si muove è profonda fino a 3, 4 chilometri. Una deformazione cioè che interessa quattro chilometri di crosta.
In conclusione?
Si studia questo fenomeno da anni, ma il nostro studio è riuscito per la prima volta grazie ai colleghi di Bari che hanno applicato questa a stabilire quanto è spesso questo strato che si deforma. E’ importante perché il collega scienziato che vuole ricostruire le tre dimensioni di questa deformazione adesso sarà in grado di stabilire quali masse sono in gioco e quali sono i fattori che li scatenano. Per difendersi da un fenomeno così potenzialmente dannoso dobbiamo conoscere le cause e l’unico modo per difendersi è di costruire non a cavallo delle zone di frattura ma lateralmente ad esse.