Esistiamo in quanto esseri continuamente tradotti. Un’esperienza che ci accompagna durante tutta la nostra esistenza. Continuamente in tensione per tradurre i nostri sentimenti, pensieri e desideri in parole e poi, fuori della nostra comunità, per capire e farci capire da coloro che non hanno il nostro vocabolario, lingua, universo. Se ciò che dà consistenza alla nostra soggettività è la capacità di entrare in rapporto con l’altro, la traduzione è il suo segno, ciò che marca il nostro stare nel mondo.
Lo ricorda Paul Ricoeur (“Il paradigma della traduzione”, in P. Ricoeur, Il giusto 2, Effatà, 2007), siamo sempre immersi nelle traduzioni, che siano lingue diverse o sia la stessa lingua. Siamo sempre esposti alla tensione di vincere l’estraneità fra realtà e parola così come fra parole diverse, l’estraneità che ci oppone al mondo e ci oppone agli altri. Siamo sempre lì a cercare di capire come fare ad accettare ciò che non capiamo. Ad accettarlo per quello che è nella sua differenza. Sempre lì a chiederci se sia possibile accettare l’incomprensibile. Per questo è nella traduzione che si mostra chi effettivamente siamo. Perché la traduzione ci sfida lanciandoci addosso il paradosso di capire chi siamo andando alla ricerca dell’altro e lo fa toccando la radice di ciò che ci contraddistingue come esseri umani, il linguaggio.
Forse poche epoche come l’attuale sono state così sfidate su questo. Forse in pochi momenti storici come quello presente custodire l’incomprensibile diventa essenziale. Il mondo come lo conoscevamo sta inesorabilmente cambiando, le culture entrano in contatto e si trasformano. La relazione fra culture diverse non è qualcosa che avviene tranquillamente senza conflitti, perché obbliga sempre a ripensare a ciò che consideriamo essenziale per noi, in qualche modo ci obbliga a fare i conti con le nostre certezze. Di fronte a questo non abbiamo scelta, o ci rifiutiamo di comprendere e mettiamo barriere o disperatamente cerchiamo di capire ciò che non riusciamo a capire. Di tradurre l’intraducibile. Ed è proprio per questo che negli ultimi decenni la traduzione è divenuta la metafora dei nostri tempi agitati. Un’idea di traduzione però totalmente diversa da ciò che si pensava in passato, che ha cambiato molte delle categorie su cui ci eravamo placidamente adagiati.
Fino a non molto tempo fa l’idea dominante era che nella traduzione si potesse spostare il nucleo essenziale di un testo da un corpo linguistico all’altro senza tanti danni. Come scriveva Georges Mounin, la traduzione consiste nel trovare “l’équivalent naturel le plus proche du message de la langue du départ, d’abord quant à la signification, puis au style” (Les problèmes théoriques de la traduction, Paris, Gallimard 1963). Un’idea ingenua di significato che prescindeva dagli elementi circostanziali che determinano la lettura e l’interpretazione di un testo. Considerare la traduzione in questo senso significa eliminare il più possibile il fatto che il lavoro di traduzione sia opera di un individuo con una sua soggettività.
Ma eliminare i tratti della soggettività porta a cancellare la duplice attività di lettura e scrittura, la quale si riduce a mano invisibile che trasforma meccanicamente le parole da una lingua ad un’altra. Un’idea di traduzione, questa, che la considera pura copia e non espressione creativa. Questo punto di vista ha costituito l’ideologia corrente della traduzione, ma in parte ancora lo è, e fa comprendere il poco risalto che fino a non molto tempo fa si dava al nome stesso del traduttore quando addirittura esso non scompariva del tutto.
Negli ultimi anni invece è affiorata nella cultura la convinzione che la traduzione eserciti una funzione di gran lunga superiore a quello che superficialmente si può pensare, perché orienta verso una certa interpretazione del testo e più in generale è fondamentale nella costruzione delle identità culturali. Ma la traduzione è anche un modello di come le identità possano essere pensate senza porsi in antitesi a qualcuno, senza necessariamente cercare un nemico rispetto al quale costruire il proprio profilo. Un modello di come possiamo entrare in relazione con l’altro, di riconoscere nella diversità un valore che permette di dialogare con l’estraneo.
Come scrive ancora Paul Ricoeur: “Tradurre significa rendere giustizia al genio straniero, significa stabilire la giusta distanza fra un insieme linguistico e un altro. La tua lingua è tanto importante quanto la mia. È questa la formula dell’equità-eguaglianza. La formula del riconoscimento della diversità” (“Il paradigma della traduzione” cit.).
Il traduttore è divenuto una sorta di figura emblematica della nostra contemporaneità multiculturale e multilinguistica proprio per questa capacità di rappresentare il modello per ogni rapporto. Chi traduce cerca ciò che può essere anche molto lontano sforzandosi di accoglierlo nella propria lingua, cioè in ciò che più lo identifica come essere appartenente a una cultura. Chi traduce deve cogliere la diversità ma al tempo stesso deve essere in grado di accoglierla. Compito difficile che la contemporaneità ci richiede insistentemente. La traduzione è diventata importante dunque perché ci ricorda la nostra fragilità esistenziale e la fragilità dei mezzi con cui costruiamo le nostre identità individuali e collettive. Ci fa fare i conti con le insicurezze che ci impediscono di andare incontro al dialogo e che ci fanno cercare fuori di noi le ragioni della nostra consistenza. Ci chiamiamo italiani, tedeschi o francesi, perché ci aggrappiamo all’interno del nostro gruppo ad alcune convenzioni culturali fra le quali spiccano la lingua o le lingue che abbiamo appreso da bambini. La lingua costituisce e allo stesso tempo rappresenta il mondo di valori che sentiamo come la nostra casa. La lingua è quindi lo strumento identitario forse più potente, ci consente di sapere chi siamo, ma talvolta può tracciare un confine e un muro fra noi e gli altri che parlano, si comportano e pensano diversamente da noi. La lingua è ciò che siamo ma può diventare un modo per rifiutare chi non vogliamo, chi non sappiamo accogliere.
Da questo punto di vista la traduzione va al di là dei muri, riguarda il rapporto con l’altro e ha a che fare con il modo in cui gli individui e le culture riescono a costruire la propria identità in un processo che vede in gioco la differenza, la somiglianza e il tentativo di far dialogare il sé e l’altro da sé.
Un grande traduttore, al tempo stesso linguista e traduttologo, Henri Meschonnic (in italiano vedi: Un colpo di Bibbia nella filosofia, a cura di Riccardo Campi, Medusa, Milano 2005) sottolineava, ricordando Schleiermacher, come di fronte a un testo da tradurre abbiamo solo due possibilità, o mostrare la traduzione per quella che è o nasconderla, e che di solito si preferisce di gran lunga la seconda opzione, cercando espedienti per ottenere l’effetto di naturalezza. Tale atteggiamento comporta la soppressione delle differenze tra le lingue. Meschonnic chiama questo effetto annessione, cioè l’annullamento del rapporto testuale tra i due testi coinvolti, l’inglobamento del testo originale nella cultura ricevente annullando le differenze di cultura, epoca, struttura linguistica. All’annessione Meschonnic contrappone il decentramento, che è il considerare la traduzione non come trasporto del testo di partenza in quello di arrivo, ma come il dialogo fra due poetiche. Mi sembra un bel modo di intendere la traduzione e al tempo stesso di pensare il rapporto con l’altro, accogliere l’altro in quanto altro senza muri o barriere di divisione.