CINCINNATI (USA) — Le ragioni per cui le lingue classiche sono incluse o meno nei programmi di scuola superiore e nei curricula universitari variano da nazione a nazione, a seconda della storia che essa ha avuto e di precise scelte espressive di un programma di governo. Tale programma può essere esplicito od implicito nelle sue realizzazioni concrete, e talvolta esso consiste in azioni inadeguate o, addirittura, nella mera inazione. Le due situazioni che meglio conosco sono l’Italia, dove ho fatto il liceo e l’università, e gli Stati Uniti d’America, dove adesso vivo e frequento un corso di dottorato di ricerca.
In Italia, latino e greco hanno sempre fatto parte dell’eredità culturale per ovvie ragioni storiche. La modalità in cui oggi sono insegnate, in particolar modo al liceo, risente ancora di una tendenza inaugurata con un certo classicismo di inizio Novecento (corifeo ne fu Ettore Romagnoli), consacrata poi dalla riforma Gentile e dalla creazione del liceo classico. Questa visione si concentra molto sull’aspetto linguistico e testuale degli autori classici, e fa sì che gli studenti italiani abbiano una salda conoscenza dei principi che regolano il funzionamento delle lingue e una precisa attenzione agli aspetti di storia del testo. D’altra parte, un frutto che comunemente questo approccio genera consiste in una certa rigidità di fronte ai classici. Valgano come esempio molte traduzioni di commedie: se non si leggesse il titolo del volume, difficilmente se ne capirebbe la differenza da una tragedia!
Negli Stati Uniti, invece, il “problema” dell’intangibilità dei testi classici non esiste. Perfino Abraham Lincoln fece di un celebre discorso contenuto nell’opera di Tucidide il modello per l’orazione funebre dopo un’importante battaglia della guerra civile. Anche a livello universitario e scientifico, gli studiosi si concentrano di più sulla cosiddetta ricezione dei testi classici, ossia come abbiano influenzato il mondo contemporaneo — la cultura contemporanea in tutti i suoi aspetti (specialmente, per ovvi motivi, politica, filosofia, etica) — e come possano essere interpretati alla luce delle dinamiche attuali. Gli studenti acquistano così una grande agilità nel paragonare numerosi testi, e hanno una spiccata propensione agli studi di ampio respiro. Si perde però molto in dettaglio, e gli aspetti più squisitamente linguistici e storici dei testi sono spesso lasciati da parte. In ispecie, è deplorevole il fatto che nelle pubblicazioni anche di carattere scientifico spesso non si trovi una sola riga in latino o in greco, ma tutto venga fornito in traduzione. In tal modo si favorisce forse una fruizione più ampia degli studi, ma a mio modo di vedere se ne abbassa anche necessariamente il livello.
Al di là degli aspetti tecnici, mi pare che il sistema italiano possa apprendere qualcosa di importante da quello americano.
Le lingue classiche non si studiano nella High School, perciò i diciottenni che decidono di impegnarsi nelle discipline umanistiche sono spesso molto motivati. Le ragioni che li spingono possono sembrare un poco ingenue ai nostri occhi, ma appunto li lanciano con baldanza: alcuni discendono da immigrati europei, altri sono affascinati dall’antichità degli oggetti dello studio (non ci si dimentichi che gli Usa sono una nazione giovanissima, e vivendoci lo si nota ad ogni angolo). Tale passione non solo non è osteggiata, come purtroppo ancora spesso accade in Italia, ma anzi è favorita in ogni modo fin dalle prime fasce scolastiche, con visite ai musei e incontri con chi già lavora nelle Humanities.
Naturalmente, in gioco c’è qualcosa che da questa parte dell’oceano storicamente abbonda: il denaro. In Italia possiamo andare orgogliosi della nostra tradizione di studi e della preparazione dei nostri docenti e anche degli studenti. C’è tanto da fare, però, per far sì che anche il mondo degli studi classici possa diventare un ambito di lavoro non meno remunerativo degli altri. Per questo occorrono senza dubbio investimenti continui, anche da parte dei privati — che negli Stati Uniti giocano un ruolo decisivo —, con coraggio. La mortificazione non paga, mentre un giusto incoraggiamento, unito alla nostra tradizione scientifica, non può che portare a grandi risultati scientifici e, perché no, anche economici. Sarebbe un bene, in altri termini, che lavorare nelle Humanities diventasse remunerativo e anzi attraente e che le Humanities fossero inserite nel circuito economico. Utopie?