Niente è più resistente della scuola al cambiamento mentre la realtà odierna nei suoi svariati aspetti — economico, lavorativo, tecnologico — spinge verso un rinnovamento a vasto raggio di questa istituzione le cui travature essenziali sono ancora quelle maturate nel XIX secolo. La scuola si può paragonare a un’anziana signora dalla bellezza ormai sfiorita che ha perso la sua giovanile baldanza e replica stancamente un passato ormai alle spalle. L’esito è quello di una deludente, quanto inutile, attesa di un ritorno di fiamma.
Nulla è più rischioso del sentimento dell’inutilità, sentimento purtroppo assai diffuso tra i giovani che affollano le nostre aule: perché affaticarsi nello studio per conseguire un diploma che non aiuta a trovare lavoro? perché andare a scuola quando si può imparare da soli anche a casa sfogliando le pagine del web? perché studiare le cose del passato quando quelle che servono sono le competenze del futuro, in primo luogo quelle digitali? Interrogativi che gli insegnanti si sentono rivolgere ogni giorno.
Si tratta di questioni, del resto, che riguardano non solo la scuola italiana. L’obsolescenza dei sistemi d’istruzione è da tempo presente nell’agenda dei think tank ove si pensa il futuro dell’istruzione come, ad esempio, Ocse, Banca Mondiale, Word Economic Forum e altri istituti di ricerca. La preoccupazione è soprattutto economica. Secondo il McKinsey Global Institute, i robot potrebbero sostituire 800 milioni di posti di lavoro entro il 2030 con conseguenze catastrofiche sul piano sociale. “Tutto ciò che è di routine o ripetitivo sarà automatizzato”, ha detto Minouche Shafik, direttore della London School of Economics, in una sessione del Word Economic Forum di Davos di quest’anno. Primaria sarebbe la necessità di passare dalla centralità delle conoscenze all’importanza strategica delle “soft skills” legate alle abilità creative: capacità di ricerca, capacità di trovare informazioni, sintetizzarle e renderle funzionali a un lavoro di squadra.
Potremmo proseguire con altre autorevoli citazioni. La diagnosi è abbastanza precisa e concorde, molto più difficile e complesso è adottare una terapia appropriata. Le due tesi più ardite sono individuabili rispettivamente tra i fautori della scuola online e tra i neodescolarizzatori.
Nel primo caso si tratterebbe di mettere in campo una nuova didattica personalizzata centrata sulla graduale scoperta del sapere e la sua sistematizzazione in funzione di competenze cosiddette “autentiche” e cioè rapportate alla soluzione di problemi reali. Nell’altro caso il futuro andrebbe disegnato intrecciando scuola ed extrascuola, istruzione e formazione, sapere scolastico e conoscenze liberamente conquistate. Il ricorso a docenti virtuali forniti dalla robotica educativa potrebbe facilitare la creazione di stimolanti ambienti di apprendimento.
Meno radicali sono le ipotesi riformatrici che puntano sulla dimensione comunitaria della scuola, con meno statalismo e maggiore responsabilizzazione degli attori sociali. La scuola del futuro dovrebbe essere dotata di larga autonomia, interattiva con il territorio e centrata su un sapere scolastico intrecciato con il lavoro, il servizio civile, la valorizzazione della multiculturalità e la promozione di forti sentimenti solidaristici.
Poiché questi cambiamenti prevedono tempi lunghi è necessario chiedersi cosa si può cominciare a fare oggi. Tra le diverse opzioni — questa la mia opinione — quella relativa al potenziamento della fisionomia educativa dei docenti è forse la più strategica e in grado di resistere alle probabili trasformazioni future. Qualunque sia la via intrapresa essa sarà condizionata dalla qualità professionale e umana dei docenti. Senza bravi insegnanti, competenti nella loro disciplina, capaci di lavorare insieme e preparati alla relazione educativa, non si va da nessuna parte.
Oggi la realtà non induce a un eccessivo ottimismo. C’è penuria di giovani interessati all’insegnamento che spesso lo accettano come “seconda chance”. I migliori laureati raramente scelgono come prima opzione l’attività docente, sia per ragioni economiche (in genere gli stipendi nella scuola sono inferiori a quelli praticati nel mondo dell’industria e degli affari) sia per questioni di status sociale (nell’ultimo mezzo secolo la figura dell’insegnante ha subito un forte ridimensionamento nella considerazione collettiva).
In molte parti d’Europa si registra una certa fatica a trovare i docenti, specialmente per gli insegnamenti scientifici e tecnologici. Alla fine del 2015, ad esempio, il governo inglese, con lo slogan “Il tuo futuro è il loro futuro”, ha lanciato una campagna per far fronte alla mancanza di professori (in specie di matematica, chimica e geografia). Situazioni analoghe si registrano anche in Belgio, Germania, Olanda, Lussemburgo, Slovacchia.
I dati europei dicono, poi, che quasi ovunque — compresa l’Italia — i docenti più anziani, appena possono, vanno in pensione, spinti dal timore di essere irrimediabilmente distanti dalla realtà giovanile e timorosi di venire criticati dalle famiglie.
Alla caduta di status sociale si associa, infine, una caratterizzazione della professione assai più articolata e nel complesso culturalmente meno prestigiosa rispetto al passato. Il sostanziale declino del profilo dell’insegnante “colto” è contestuale all’emergere di altri profili: quello del tecnologo, dello sperimentatore, del facilitatore, dell’artista, dell’animatore giovanile che alla fine disegnano una professione dai mille volti.
Tutte prospettive rispettabili che però sorvolano sulla necessità di riconoscere all’insegnante anche il ruolo di “adulto significativo”. Chi sono gli insegnanti che rispondono a questa definizione? Sono persone che non predicano i valori, ma li praticano tangibilmente, che non dicono “fai così”, ma “fai con me”, che sono capaci di traghettare i ragazzi e i giovani verso la vita adulta creando rapporti improntati alla fiducia, alla speranza, alla progettazione del futuro senza rinunciare, quando è il caso, anche a dire qualche energico no.
Tutti vorrebbero avere i figli seguiti da insegnanti “adulti significativi”, ma nel discorso pubblico questo aspetto della questione è posto sotto traccia. Si percepisce un’evidente diffidenza verso quello che sembra un ritorno nostalgico ai buoni sentimenti stile Cuore. Eppure sono proprio questi comportamenti spesso silenti a mobilitare le scuole migliori, anche se sfuggono a qualsiasi rilevazione statistica.